L’invasione russa dell’Ucraina è attiva ormai da cinque settimane e, dopo una primissima fase militarmente dinamica, ad oggi la situazione on the ground sembra essere prossima ad arenarsi. In ciò, la resistenza ucraina ha giocato un ruolo fondamentale. Nei primi giorni, è stata in grado di reggere l’urto poderoso dell’offensiva russa e di mantenere un ampio numero di roccaforti strategiche. Ha quindi sapientemente lavorato in ambito diplomatico al fine di garantirsi un sostegno internazionale più ampio possibile. Negli ultimi giorni, infine, ha persino tentato una serie di contrattacchi lungo zone strategiche. Oggi, la mappa della situazione sul campo disegna uno scenario piuttosto impietoso per la Russia, che controlla un’area relativamente ristretta del paese invaso e pare aver perso tutto lo slancio militare iniziale.
Una situazione strategica “bloccata” difficilmente può concludersi se non tramite la via del negoziato. Le due parti, nelle ultime settimane, hanno intensificato i propri incontri diplomatici, anche ad altissimo livello. L’accordo rimane comunque lontanissimo e le posizioni di difficile conciliazione. L’Ucraina dovrà cedere qualcosa, come confermato anche dal presidente Zelensky. Ciò che è meno chiaro rimane l’obiettivo russo. Che Mosca ottenga qualcosa sembra scontato: Crimea e Donbass in particolare sembrano gli elementi più negoziabili dal lato ucraino. In un certo senso, il Cremlino potrebbe ottenere una semi-vittori.. È pacifico però che, rispetto alla sproporzione di forze, agli eventi militari, agli obiettivi iniziali e alle conseguenze internazionali, questa possa apparire più come una pseudo-vittoria di Pirro.
Il ruolo dei mediatori
In una fase così confusa, in cui eventi militari e incontri diplomatici continuano ad accavallarsi, diviene centrale il ruolo dei mediatori internazionali. Essendo coinvolta in prima persona la Federazione Russa, la gamma dei mediatori plausibili è tuttavia molto ristretta (ed esclude senza appello enti specificamente preposti, come le Nazioni Unite, essendo Mosca uno dei Permanent Five). Ciò ha permesso, nelle scorse settimane, a tre attori internazionali “atipici” di agire con profitto nella ricerca della pace: Turchia, Israele e Santa Sede.
La Turchia è membro della NATO, ma al contempo è da anni in una situazione di conflitto diplomatico grave con i suoi alleati: ciò la rende da un lato un interlocutore credibile anche per la controparte russa, dall’altro desiderosa di recuperare un ruolo rilevante nell’ordine internazionale. Israele non fa parte della NATO ma è uno strettissimo alleato statunitense; eppure, mantiene da decenni rapporti economici e politici di grande rilievo con Mosca. Infine, il Vaticano si è ritagliato negli ultimi anni un ruolo sempre maggiore come “campione del multilateralismo e della pace”.
Il ruolo internazionale del Vaticano
Le radici del ruolo internazionale della Santa Sede sono di antichissima matrice ed è persino complicato rintracciare una data fondativa. Quel che è certo, tuttavia, è che il pontificato di Francesco ne ha rappresentato uno snodo evolutivo saliente e, a suo modo, storico. Il papa ha persino dedicato, nel 2017, l’enciclica Fratelli Tutti al tema del multilateralismo e della pace tra popoli. Pur essendo una realtà geograficamente e militarmente irrilevante, detiene una massiccia dose di potere simbolico che “spende” volentieri in politica internazionale.
Chiaramente, non è un potere in grado di imporsi (ma, eccetto forse gli Stati Uniti, quali altri stati ne sono in grado?), e necessita per essere attuato del riconoscimento del proprio ruolo da parte degli attori in gioco. Quest’ultimo elemento, in una sorta di processo circolare, le è garantito dal potere simbolico di cui sopra. Tutto ciò per rimarcare ancora una volta un fatto limpido: è bene non sottovalutare l’impatto internazionale dell’attore “Santa Sede”. Farlo nega all’analisi un importante livello di approfondimento.
Tre traiettorie e tre modalità
Le traiettorie dell’impegno estero del Vaticano sono sostanzialmente tre: multilateralismo, pacifismo e pragmatismo. La prima è rimarcata dalla Fratelli Tutti, la seconda è insita alla natura stessa dell’attore, la terza (non in contraddizione con le prime due) è fondamentale per comprendere certe dinamiche altrimenti paradossali. L’impegno vaticano è sempre a metà strada tra lo sforzo per il bene collettivo (i.e. la pace tra popoli) e gli interessi specifici (i.e. il benessere delle confessioni cristiane-cattoliche nel mondo). Nello specifico della guerra russo-ucraina, la traiettoria del multilateralismo è di difficile esecuzione per via di molti fattori; quella del pacifismo è l’obiettivo ultimo dello sforzo; quella del pragmatismo è il modus operandi prescelto nel tentativo di provocare un effetto reale.
Le modalità diplomatiche del Vaticano
Nei fatti, la mediazione si concretizza, ad oggi, secondo tre modalità. Innanzitutto, una comunicazione orientata alla pace e alla cessazione delle ostilità mediante l’esteso impianto comunicativo vaticano (gli Angelus, i discorsi del pontefice, i mezzi stampa, le interviste alla curia). Questo primo tassello, che pur prima facie si rivolge ai leader mondiali, è più propriamente indirizzato verso le coscienze dei singoli e di tutti quegli individui che riconoscono la valenza simbolica delle prese di posizione ecclesiastiche. In secondo luogo, tramite le piattaforme di dialogo interreligioso, che possono modellarsi su istituzioni preesistenti oppure essere create ex novo.
In questa direzione vanno, per esempio, le notizie degli ultimi giorni su un possibile colloquio tra Francesco e il patriarca ortodosso di Mosca, Kirill. La speranza è che questo possa avvenire entro l’estate e in territorio neutro, quindi né Roma né Mosca. Le posizioni del patriarca, fortemente a favore dell’invasione dell’Ucraina e resosi protagonista di alcune dichiarazioni particolarmente controverse, giocano un ruolo importante nel direzionare il sentimento popolare di una Russia in cui 60 milioni di persone si definiscono “cristiane ortodosse”. La Santa Sede auspica di poter esercitare una leva di pressione significativa, fondandosi anche su un passato di amicizia costruito lungo i decenni.
Viaggio a Kiev?
Infine, l’ultima modalità riguarda un possibile intervento del papa in prima persona, mediante un viaggio a Kiev. Si tratta di una carta pericolosa di cui a Roma si discute molto, ormai da settimane. La possibile de-escalation nella zona della capitale potrebbe certamente favorire un’attuazione del progetto, ma le posizioni contrarie interne alla curia sono molte e rilevanti. Fonti interne riportano come vi siano al momento due fazioni con idee radicalmente opposte.
Da un lato vi sono i favorevoli, a metà strada fra l’idealismo e il pragmatismo, che ritengono “idealisticamente” dovere morale del papa (che condivide il nome con il santo che, in piena crociata, viaggiò fino alla corte del nipote del Saladino) quello di compiere un atto forte in nome della pace, e “pragmaticamente” che l’opzione del viaggio sia il modo migliore per uscire da una empasse in termini di risultati reali frutti dell’impegno della Santa Sede. Dall’altro vi sono i contrari, pacifisti e pragmatici “in altra veste”, che sconsigliano il piano per evitare un chiaro schieramento e per non rischiare l’incolumità del Santo Padre.
Un multilateralismo in crisi
Le tre modalità hanno il pregio di non essere mutualmente esclusive e, dunque, di potersi attuare contemporaneamente. Un dato, tuttavia, risalta con chiarezza: l’assenza della carta multilaterale dal mazzo delle soluzioni possibili. Pur essendo un elemento fondante della politica estera vaticana, le condizioni contingenti che la guerra sta facendo emergere rende impossibile per la Santa Sede un serio impegno in tal senso. Le organizzazioni internazionali stanno sì rivestendo un ruolo centrale nel conflitto, ma limitatamente alla fattispecie delle organizzazioni “di schieramento”, come per esempio la NATO. Il Vaticano, invece, può giocarsi solamente la carta delle Nazioni Unite, di cui è osservatore permanente in Assemblea Generale. Questa stasi dell’ONU, forzata dalla Russia e che ben evidenzia le carenze intrinseche dell’organizzazione, rappresenta un problema significativo per il ruolo internazionale del Vaticano, escludendo la sua via prioritaria di azione.