Il 2023 sarà un anno cruciale per il futuro della fragile democrazia della Tunisia. A dicembre 2022 si sono, infatti, aperte le elezioni parlamentari che porteranno alla formazione di una nuova legislatura anticipata nel corso di questo anno.
L’assetto governativo della Tunisia sembra allontanarsi progressivamente dai traguardi raggiunti con “Rivoluzione dei Gelsomini”. Il cammino intrapreso nel 2021 dall’attuale Presidente Kaïs Saïed ha tutti gli elementi di una deriva autoritaria.
Analizzare il contesto nel quale è stato intrapreso il percorso democratico del Paese mette in luce le sue stesse debolezze. L’apparente battuta d’arresto che esso sta subendo ad oggi è sicuramente segno di una mancata interiorizzazione dei meccanismi democratici. Allo stesso tempo, la Tunisia sta risentendo dell’inefficienza del sostegno della comunità internazionale.
La “Rivoluzione dei Gelsomini”
L’espressione “Rivoluzione dei Gelsomini” si riferisce alla serie di proteste emerse nel Paese alla fine del 2010. In particolare, il suo inizio viene fatto simbolicamente coincidere con il gesto estremo compiuto dal giovane Mohamed Bouazizi. Quest’ultimo, ambulante ventiseienne tunisino, si diede fuoco nel dicembre 2010, morendo per le gravi ustioni riportate il 4 gennaio 2011.
Le condizioni economiche in cui versava il Paese erano, infatti, estremamente limitanti. Gli alti tassi di inflazione e la disoccupazione dilagante portarono alla rivolta della popolazione. Corruzione e instabilità governativa contribuirono ad alimentare lo scontento.
Dalla città di Sidi Bouzid, in cui avvenne il primo tragico episodio tunisino, le proteste si espansero in molti Paesi arabi. Tra i più impattati ci furono sicuramente Egitto, Libia, Siria, Yemen e Bahrein. Anche Algeria, Iraq, Arabia Saudita, Oman, Marocco e Kuwait conobbero, però, movimenti di protesta.
Tra quelle che vennero definite “Primavere arabe”, quella “dei Gelsomini” può essere considerata la più riuscita. In Tunisia, le forti proteste hanno portato alla caduta della “dittatura morbida” di Ben Ali, a capo del Paese dal 1987. Esso aveva accentrato il potere nelle sue mani, tramite il partito Raggruppamento democratico costituzionale (Rdc).
Dopo ben 23 anni, la rivoluzione avviò un processo di transizione democratica estremamente delicato. Fu significativa, in questo senso, l’approvazione della nuova Costituzione nel gennaio 2014. Quest’ultima inaugurò la Repubblica semi-presidenziale tunisina, dal compromesso fra le forze parlamentari di Ennahda e quelle presidenziali dei partiti laici.
Sul modello delle Costituzioni occidentali, essa garantiva, inoltre, il rispetto dei diritti umani fondamentali e la divisione dei poteri. Nello stesso anno si tennero le prime elezioni presidenziali democratiche, che decretarono la vittoria di Beji Caid Essebsi.
L’ascesa di Kaïs Saïed
La presidenza di Beji Caid Essebsi ha visto grande frammentazione interna. Questo ha portato allo sfaldarsi della coalizione tra la fazione islamista di Ennahda, guidata da Rachid Ghannouchi, e quella laica di Nidaa Tounes a fine 2018.
Inoltre, nonostante i notevoli progressi, la situazione economica è rimasta un costante motivo di tensione. Il Paese, nonostante gli aiuti dal Fondo Monetario Internazionale (IMF) e dall’Unione Europea, è sempre stato caratterizzato da alta disoccupazione e instabilità. Le ulteriori proteste scoppiate a gennaio 2018 ne sono una conferma.
A seguito dell’improvvisa morte di Essebsi, avvenuta a luglio 2019, emerge Kaïs Saïed. Egli, candidato indipendente, si presentò come figura forte che avrebbe contrastato la corruzione e dato stabilità al Paese. La sua retorica tradizionalista, dai tratti populisti, si è sempre incentrata sulla fortificazione della democrazia diretta.
Eletto Presidente ad ottobre 2019, Saïed si scontra sin da subito con la frammentazione partitica tunisina e i conseguenti ostacoli al suo potere decisionale.
La situazione degenera nel 2021. Il 25 luglio il Presidente, di fronte all’aggravarsi della crisi socio-politica, decide di destituire il primo ministro Hicham Mechichi e sospendere il parlamento. Il “golpe”, a seguito di mesi di tensione con il Presidente dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo, Rachid Ghannouchi, è stato l’inizio di severe misure di accentramento del potere.
Complice anche la frustrazione dovuta alla pandemia da Covid-19, la popolazione scende nuovamente in strada.
Il Presidente ha continuato, però, a portare avanti le sue modifiche. Con un decreto presidenziale, emanato a settembre 2021, ha assunto i pieni poteri e sospeso la Costituzione del 2014.
Ritorno al passato o deriva autoritaria?
Il 25 luglio 2022 è stata approvata una nuova Costituzione per la Tunisia, nonostante solamente il 30% degli aventi diritto si sia recato alle urne. Questo testimonia il carattere illiberale che sta assumendo la Repubblica.
Si è passati da un modello semi-presidenziale a iper-presidenzialismo. Il Presidente ha, quindi, acquisito poteri significativi, dalla nomina delle cariche di governo all’uso di misure straordinarie.
Alle elezioni parlamentari ancora in corso per ora ha partecipato solo una minima parte della popolazione. Al ballottaggio tenutosi il 29 gennaio 2023 ha votato, infatti, solamente l’11%. La nascente legislatura, che secondo la Costituzione potrà essere formata esclusivamente da candidati indipendenti, avrà probabilmente poco margine d’azione.
Nel frattempo, la comunità internazionale, e specialmente i Paesi europei, arrancano nel trovare accordi per le politiche d’immigrazione. In questi decenni, però, sono mancati aiuti concreti per una duratura transizione democratica, che possa disincentivare i flussi migratori.
Il Paese è comunque al centro di importanti accordi economici. L’IMF prevede un prestito di 1.9 miliardi di dollari a suo favore, ma, allo stesso tempo, impone misure di austerità. Anche l’Italia sostiene finanziariamente la Tunisia in cambio di esternalizzazione delle frontiere e cooperazione. Questo è previsto dal Memorandum d’intesa firmato da Luigi Di Maio a giugno 2021 per il triennio 2021-2023.
Se la situazione politica è ad oggi di nuovo preoccupante, forse è anche dovuto alla mancanza di misure mirate per la ripresa economica e sociale del Paese. A 12 anni dalle “Primavere arabe” il profumo di quei gelsomini sembra dissolversi sempre di più.