Ci risiamo. Dopo quasi un secolo di ricomposizione dello scontro politico intorno all’asse destra-sinistra, ecco che emergono nuove spaccature (cleavage nel linguaggio politologico) e tornano di moda vecchie fratture. È questo il caso dello scontro centro-periferia.
Antico cleavege attorno a cui si organizzava il confronto politico di inizio Ottocento, lo scontro tra centro e periferia, tra città e campagna, è tornato in auge per spiegare la politica degli ultimi anni. Il centro e la periferia sono diventate categorie progressivamente più sociali che geografiche. Il centro definisce le classi istruite cosmopolite delle grandi città, coloro che abitano nel centro urbano e che vedono nella globalizzazione un mare di nuove opportunità. Sono periferia, invece, i vinti della globalizzazione, economicamente e socialmente marginali vivono nelle grandi periferie o nell’Italia profonda, quella di provincia, formata da tante piccole città, paesi e paesini, spesso mal serviti dai servizi pubblici e lasciati a se stessi.
Nonostante il cleavage centro-periferia venga usato sempre più con una connotazione sociale, l’antico carattere squisitamente geografico della distinzione sopravvive ancora. Solo così si può spiegare la geografia elettorale dell’Italia di oggi, dove i patiti tradizionali vincono nei centri delle grandi città e Lega e Movimento 5 Stelle dilagano in periferia. È così a Roma, dove il Pd vince ai Parioli, mentre Movimento 5 Stelle e centrodestra si spartiscono la periferia. È così a Milano, dove il Pd è sempre più “il partito della ZTL”, mentre la destra si fa espressione del malessere delle periferie e della provincia.
Uno scontro, quello tra centro e periferia, che viene riproposto anche dal prossimo referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari. Fortemente voluto dal Movimento 5 Stelle, il referendum è stato dai più inquadrato nell’alveo dell’antipolitica. Si tratterebbe, ancora una volta, dello scontro tra “il sistema”, “la casta”, “l’establishment” e il popolo. Tra la gente comune e una classe politica sovradimensionata e fannullona. “I politici sono troppi” e “Ci constano troppo” sono le due motivazioni che più si sentono in giro. Insomma, niente di nuovo sotto il sole. Pare che il referendum sia l’ennesima occasione di scontro tra le istituzioni e il populismo, la solita trama a cui siamo abituati almeno dalle elezioni del 2013, con l’exploit del Movimento fondato da Beppe Grillo.
Ma c’è di più. Ad una più attenta analisi, il referendum ripropone lo scontro tra gli interessi del centro e quelli della periferia, e se la riforma fosse approvata non farebbe che esacerbare la frattura tra una parte d’Italia che continuerà a trovare le proprie istanze rappresentate e un’altra che sarà sempre più abbandonata e dimenticata.
Non stiamo parlando delle periferie cittadine, che, essendo aree densamente popolate, continueranno ad eleggere i propri rappresentanti. Per periferia intendiamo quelle vaste aree del paese, lontano dai grandi centri e dalla costa, che costituiscono l’Italia profonda. Sono zone poco abitate, spesso non servite dalla rete ferroviaria nazionale, mal collegate al resto d’Italia e in cui la viabilità è un problema. Sono i piccoli comuni, l’entroterra, le zone alpine e quasi tutta la fascia Appenninica, il Mezzogiorno. Sono zone marginali ma non secondarie, poiché rappresentano l’essenza stessa dell’Italia. Non si tratta solo dei piccoli comuni sotto i cinque mila abitanti, che pure rappresentano il 69% di tutti i comuni in Italia e in cui vivono più di dieci milioni di persone. Si tratta anche dei comuni di medie dimensioni, diciamo sotto i venti mila abitanti che costituiscono il 93% dei comuni totali e in cui vive il 46% della popolazione italiana residente. Non stiamo parlando di briciole.
La riduzione dei parlamentari non inciderà sulla rappresentanza democratica uniformemente su tutto il territorio nazionale. Ci saranno regioni e parti d’Italia molto più colpite di altre e questo non potrà che esacerbare il conflitto tra centro e periferia, tra chi continuerà a presentare con successo le proprie istanze alle istituzioni e chi sarà sempre più inascoltato e dimenticato.
Se i deputati passeranno da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200 basta fare una semplice divisione per capire che ci sarà meno rappresentanza dopo la riforma. Banalmente, se ora un deputato rappresenta 96 000 abitanti, dopo la riforma ne dovrebbe rappresentare 151 000. Peggio va per i senatori. Oggi ognuno rappresenta 191 000 abitanti, con la riforma ne dovrebbe rappresentare 301 000. Ma la riduzione di rappresentanza non inciderà nella stessa misura in tutte le aree del paese.
Non sarà un problema né per le grandi città né per le regioni più popolose, che continueranno ad eleggere in Parlamento un buon numero di deputati e senatori. La riduzione di rappresentanza sarà invece maggiore altrove, e soprattutto in Senato. Particolarmente problematici sono i casi della Basilicata e dell’Umbria, regioni che attualmente eleggono 7 senatori e che dopo la riforma ne eleggeranno solamente 3 (-57%). Ma il problema della rappresentanza non affliggerà solo le regioni più marginali, avrà effetti anche all’interno di ciascuna regione.
Le città verranno favorite rispetto alle aree meno densamente popolate. Se oggi anche città minori, non capoluogo di provincia, possono avere un proprio concittadino a rappresentarle in Parlamento, con la riforma questo probabilmente non sarà più possibile. Non necessariamente sarà così. Non stiamo parlando di regole formali che andranno a sfavorire “la campagna” rispetto “alla città”. Si tratta della dinamica della politica, il modo in cui si svolgono le campagne elettorali e le dimensioni delle circoscrizioni. Alla fine, si ridurrà tutto a un calcolo di probabilità.
Con un minor numero di parlamentari da eleggere e con i nuovi rapporti rappresentante-rappresentati il Parlamento sarà sempre più espressione delle aree centrali del paese e sempre meno del territorio. Semplificando, se c’è un deputato ogni 151 000 cittadini e 1 senatore ogni 301 000, sarà molto probabile che quel deputato e quel senatore vengano espressi dalle città più popolose della circoscrizione. Certo, questo non è un qualcosa di predeterminato e ineluttabile ma chi fa politica conosce bene il vantaggio competitivo che proviene dall’esser cittadini di una città medio-piccola. Abbastanza piccola per cui più o meno “tutti conoscono tutti” e abbastanza grande per ricoprire una parte cospicua della popolazione del collegio. Se, quindi, i candidati di queste città continueranno probabilmente ad essere eletti in Parlamento non sarà lo stesso per quelli di città più piccole. I 345 parlamentari che vengono tagliati dalla riforma non saranno “casuali”, saranno proprio i rappresentanti di quell’Italia profonda, fatta di piccole città, paesi e borghi. Con questa riforma la politica non potrà che allontanarsi ancor di più dal territorio, diventare più autoreferenziale, distaccata dalla vita dei cittadini. Il potere di rappresentazione degli interessi e dei valori della comunità non potrà che diminuire e avremo un Parlamento sempre meno plurale, sempre meno rappresentativo e sempre più lontano dai cittadini.
La periferia diventerà sempre più periferia, la campagna sempre più dimenticata.
Questo non potrà non avere ripercussioni sul piano economico, sociale e politico. Se le istituzioni si dimenticano di una parte del paese, se perdono la capacità di rappresentare chi è più marginale, a rischio è la stessa tenuta del sistema democratico. Con la riforma si creeranno sempre più cittadini disillusi e arrabbiati. Sarà allora una sconfitta per tutti.