Il 25 maggio in un tweet il senatore Pillon, in polemica con l’Università di Bari, afferma che “è naturale che i maschi siano più appassionati a discipline tecniche, tipo ingegneria mineraria per esempio, mentre le femmine abbiano una maggiore propensione per materie legate all’accudimento, come per esempio ostetricia”. Ma sarà veramente così?
Stereotype threat
Vediamo prima di tutto di definire chiaramente cosa si intende per stereotipo; lo ha fatto per noi un importante psicologo sociale:
Nello stereotipo l’individuo: categorizza altri individui, normalmente sulla base di caratteristiche fortemente visibili, come il sesso e la razza; attribuisce un insieme di caratteristiche all’insieme dei membri di quella categoria; attribuisce quelle caratteristiche a ciascun individuo membro di quella categoria.
Snyder, 1981
Come l’Onorevole Pillon ci ha gentilmente ricordato, uno degli stereotipi di genere più comuni vuole i maschi più portati per le materie scientifiche, le femmine per quelle umanistiche. Peccato che già nel 1999 uno studio sociologico abbia dimostrato che si tratta, appunto, solo di stereotipi e che il verificarsi di risultati compatibili con questa affermazione è dovuto solo all’imposizione di questi stereotipi sugli alunni.
Prendendo bambini e bambine divisi per età e sottoponendoli a un test di matematica, gli studiosi notarono qualcosa di sorprendente. Nelle classi in cui non era nominato lo stereotipo prima del test maschi e femmine ottenevano risultati mediamente analoghi, mentre nelle classi in cui prima che iniziasse il test veniva affermato che le bambine, in quanto femmine, l’avrebbero fatto male, esse mostravano un calo di prestazione. Questo fenomeno fu denominato stereotype threat (minaccia dello stereotipo).
Un successivo studio del 2006 dimostrò che gli stereotipi vengono interiorizzati crescendo e che la stereotype threat colpisce le studentesse sottoposte ad un test quando viene loro detto che il test verifica la loro intelligenza logica, ma colpisce anche gli studenti maschi sottoposti allo stesso test se si dice loro che verifica l’intelligenza sociale. Il punto è, quindi, che nessuno è naturalmente più portato per un tipo di materia in base al suo genere, poiché il nostro genere non ha nulla a che vedere con lo sviluppo della nostra intelligenza.
La società però può portare a prestazioni differenti in determinati campi in base al genere (o al colore della pelle) con l’utilizzo di stereotipi. Viene da sé, dunque, che l’iniziativa dell’Università di Bari non dipende da “un modo di fare ideologico”, ma da dati scientifici: è provato che gli stereotipi, di qualsiasi tipo siano, danneggiano socialmente sia le donne che gli uomini. Concentriamoci ora sugli stereotipi sulle donne per approfondire più avanti quelli sugli uomini.
Stereotipo di genere: la donna è moglie e madre
Lo stereotipo di genere per eccellenza è quello che tanto spesso la televisione italiana ci tiene a ricordarci (qui qualche informazione su una delle ultime perle): la donna è prima di tutto moglie e mamma e, in quanto tale, si deve occupare della cura della casa e dei figli perché naturalmente è questo che la realizza in pieno, sia nel corpo che nella personalità, data la sua naturale empatia.
Non serve citare le infinite lotte portate avanti da donne e uomini prima di noi a causa di questo stereotipo che ci vuole come delle aspirapolveri con biberon incorporato; esse sono servite alle donne per ottenere diritti fondamentali come il diritto di voto, il diritto all’aborto, il divorzio e l’annullamento del delitto d’onore, conquiste tanto recenti quanto costantemente minacciate.
La presenza in Senato dell’onorevole Pillon ci ricorda ogni giorno che questo stereotipo è ancora oggi vivo e tangibile e contribuisce quotidianamente a discriminare le donne italiane. Il WEF (World Econimic Forum) dal 2006 pubblica ogni anno il Global Gender Gap Report, il quale fornisce un quadro che mostra la portata del divario di genere in 153 Paesi. Per ogni nazione l’indice fissa uno standard del divario di genere basandosi su criteri economici, politici, di educazione e di salute e fornisce una classifica dei Paesi, permettendo un confronto efficace sia tra regioni che gruppi di reddito nel tempo. Ognuna delle quattro categorie viene valutata con un punteggio compreso tra 0 e 1 (in cui 1 è la parità di genere perfetta), e la somma dei punteggi viene poi divisa per 4 identificando così il Gender Gap Index del singolo Stato.
Nel 2020 si classifica prima su 153 Stati l’Islanda con un GGI di 0.877; l’Italia si piazza 76esima con 0.707. Ci troviamo di fatto poco sopra la media globale (0.685) e poco sotto quella europea (0.767); giusto per dare un’idea, hanno un GGI più alto del nostro il Kazakistan (0.710), il Burundi (0.745) e il Bangladesh (0.726). Questo indice, particolarmente basso per l’Italia nei punteggi di economia e politica, è un dato che permette di approcciare la nostra situazione: lo stereotipo sui ruoli di genere in Italia è molto forte ed è controproducente negarlo. Il mondo del lavoro in Italia è plasmato a misura maschile perché è solo il maschio, secondo lo stereotipo, ad avere successo a livello professionale.
Nel 2020 il tasso di occupazione femminile in Italia è solo del 35.8%, di cui circa 1/3 part time, a fronte del 52.9% degli uomini, di cui solo 1/12 part time. Inutile ricordare ancora una volta quanto la pandemia abbia esacerbato questo dato, un po’ per la necessità degli imprenditori di tagliare sul personale, un po’ per quella delle famiglie di potersi occupare dei figli a scuole chiuse. Tuttavia, quelle lavorative, benché importanti e snervanti, sono solo alcune delle conseguenze devastanti che lo stereotipo sui ruoli di genere porta in Italia: essi vengono assimilati entrando a far parte della nostra personalità, creando dei veri e propri fenomeni di massa basati sul nulla di fatto.
Internalized misoginy
Quello della “misoginia internalizzata”, o internalized misoginy, è un fenomeno che subiamo tutti e non comporta per forza picchiare una donna, insultarla in pubblica piazza o ritenerla consciamente inferiore all’uomo.
Per internalizzare la misoginia basta crescere all’interno della nostra società, sottoposti a tutti gli stereotipi del caso. Fondamentalmente a livello sociale mascolinità e femminilità ci sono presentati come due monoliti contrapposti e complementari: entrambi hanno caratteristiche positive e negative ma il “vero uomo” e la “donna per bene” non hanno nulla in comune e proprio per questo si adattano perfettamente l’uno all’altra in qualsiasi forma sociale.
La femminilità di per sé è vista come cura e accudimento, ma anche come eccentricità eccessiva, stupidità e superficialità. Quante volte abbiamo sentito dire, o abbiamo a noi volta detto, “ma guarda quella come si veste, che oca!”? Eppure, riflettendoci oggettivamente, qual è la correlazione tra una minigonna e l’intelligenza di chi la indossa? Tuttavia in questo caso una riflessione oggettiva ci costringerebbe a togliere potere allo stereotipo e questo ci renderebbe in qualche misura asociali. Ci sono modi molto più rapidi, semplici e indolori per proteggersi dallo stereotipo e il primo di questi è proprio internalizzarlo.
Not Like Other Girls e “pick me” girls
Dopo aver assorbito il concetto monolitico di femminilità, la donna ha due strade: può sentirsi rappresentata o può rifiutarlo in qualche modo. Nel primo caso non le si presenta davanti alcuno scontro con la società e tutto va a gonfie vele; nel secondo, invece, si aprono altre due strade, i due poli del “non sono come le altre” (o “i’m not like other girls”, abbreviato in NLOG). Si tratta appunto di prendere le distanze dalla femminilità monolitica, riconosciuta e percepita come tale, perché non ci si sente rappresentate da essa.
Nel primo caso ciò può evolvere in un sentimento di inferiorità nei confronti delle altre donne, perché si percepisce di non riuscire in nessun modo a raggiungere il livello di femminilità che invece le altre hanno senza problemi (perché non sono magra come Cara Delevingne?). Questo senso di insicurezza provoca un malessere profondo che può sfociare anche in patologie più gravi, ma non è l’unico modo di rapportarsi con la femminilità monolitica. Alcune donne infatti si sentono migliori delle altre proprio perché meno femminili di loro (io odio fare shopping e questo mi rende sicuramente più intelligente delle altre donne).
Questo tipo di NLOG può poi percorrere un’altra via ancora più oscura, quelle delle “pick me” girls (ragazze “scegli me”), arrivando non solo a sentirsi superiore alle altre donne semplicemente perché non si identifica nella femminilità socialmente definita, ma a denigrarle in quanto più femminili (e dunque più sciocche e superficiali) per mettersi in buona luce di fronte all’altro sesso. Le “pick me” girls di fatto appoggiano la misoginia della società per utilizzarla come trampolino di lancio per porsi su un gradino che sta tra gli uomini e le altre donne, come a dire “sì, lo so, sono terribili; ma guardami: io sono meglio!”.
Un esempio molto semplice da inquadrare di “pick me” girl è Taylor Swift nel video del singolo You Belong With Me (2008).
Ciò significa che solo il concetto stereotipato di femminilità viene internalizzato? Assolutamente no. Tuttavia, per approfondire meglio abbiamo pensato che fosse meglio dedicare un articolo a parte ai problemi che gli stereotipi di genere causano anche agli uomini nella nostra società, per dimostrare per l’ennesima volta che smantellarli conviene a noi tutti.
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Chiara Parma