Nelle battute conclusive del Roman de la Rose, Jean De Mung avvia una digressione su una storia, quella dello scultore Pigmalione innamoratosi di una statua realizzata da se stesso, tratta dalle Metamorfosi di Ovidio.
L’innamoramento di Pigmalione, nell’economia del romanzo, è descritto allo scopo di richiamare il fol amour dei poeti cortesi e della lirica trobadorica: il poeta intende mettere l’accento sul carattere morboso e perverso dell’amore per l’imago, peccato di lussuria e, contemporaneamente, culto religioso. Pigmalione stesso si paragona a Narciso e descrive con una cruda naturalezza le frustrazioni dovute ad una tale passione.
Rispetto all’episodio narrato da Ovidio, Jean de Mung si sofferma minuziosamente su un episodio di feticismo: l’amante Pigmalione viene colto mentre prova sulla statua differenti capi di vestiario e calza i piedi della propria ymage. De Mung, tuttavia, assegnando all’azione un pathos tanto grottesco quanto religioso, descrive anche la scena in cui Pigmalione offre alla sua imago un anello d’oro e celebra quella che deve essere considerata come la parodia del matrimonio cristiano. A testimonianza della duplice natura dell’amore di Pigmalione, accorrono anche alcune illustrazioni in cui quest’ultimo viene alternativamente raffigurato come folle amante che accarezza lascivamente l’immagine nuda e fedele inginocchiato in un atto di estatica adorazione.
All’interno del Roman, l’excursus su Pigmalione ha un valore cruciale poiché permette di introdurre e rendere più accettabile l’episodio conclusivo del poema: dopo che Venere ha scoccato il proprio dardo contro una feritoia che si trova in mezzo a due pilastri che sostengono il busto di una donna nuda, consentendo di incendiare e successivamente espugnare il castello in cui si trova la rosa, il protagonista si dirige verso l’ymage e introduce il proprio bastone, in luogo del membro virile, nella feritoia, a sua volta evidentemente collocata nel luogo in cui dovrebbe trovarsi il sesso femminile.
Se ricordiamo che il poema ha preso le proprie mosse dalla descrizione dell’innamoramento del protagonista, originato da un’immagine riflessa nella fontana di Narciso, capiamo che l’amore per l’ymage sia il vero e proprio motivo conduttore dell’intero Roman, un itinerario amoroso che va dallo specchio di Narciso all’atelier di Pigmalione, da un’immagine riflessa ad una costruita artificialmente.
Ma perché, in un poema in cui tutto è animato dai principi dell’allegoria, l’oggetto d’amore è rappresentato da un’immagine inerte?
Il tema dell’amore per un’immagine è tutt’altro che infrequente nelle letterature romanze (pensiamo al Lai de l’ombre di Jean Renart o alla produzione di Giacomo da Lentini): secondo una teoria appartenente alla psicologia e fisiologia medioevali, gli oggetti sensibili imprimono nei sensi la loro forma e quest’impressione (o fantasma) desunta dai sensi è poi ricevuta dalla fantasia che la conserva anche in assenza dell’oggetto che l’ha prodotta. Questo fantasma, attraverso il filtro rappresentato dagli occhi, penetra nel cuore per svolgere un ruolo fondamentale nel processo di innamoramento dell’io lirico.
Eros allo specchio
Già nel Filebo, Platone ricorda come nell’anima ci sia un’artista, la fantasia, capace di disegnare le immagini delle cose, le quali, quindi, si trasformano in fantasmi. Dal momento che il tema centrale del Filebo è il piacere, deduciamo implicitamente che desiderio e piacere non siano possibili se non attraverso questa pittura e che, in sintesi, non possa esistere un piacere unicamente corporeo.
Il concetto di “pittura interiore” può essere spiegato attraverso un ulteriore leitmotiv della psicologia classica, di cui si servirono sia Platone che Aristotele, riguardante il processo di formazione del fantasma: nell’animo umano esiste una sorta di cera impressionabile che riceve, attraverso un’impronta, la sensazione prodotta da ciò che è stato percepito e la passione prodotta dalla sensazione, come abbiamo già visto, viene poi trasmessa alla fantasia che può produrre il fantasma anche in assenza della cosa percepita.
Ma che cos’è più precisamente la fantasia? Secondo Aristotele, si tratta di un movimento prodotto dalla sensazione giunta a compimento e, proprio perché la vista è il senso per eccellenza, la fantasia trae le proprie origini etimologiche dalla luce (faos in greco).
Di ciascun ente non si può avere memoria senza fantasma: la funzione di quest’ultimo nel processo conoscitivo è talmente cruciale da poterlo considerare come la condizione necessaria all’intelligenza. Il fantasma, inoltre, svolge una funzione essenziale nel sogno, dal momento che le passioni prodotte dalla sensazione permangono non solo durante la veglia, e nel linguaggio: la voce, in Aristotele, non a caso è un suono significativo poiché capace di veicolare un qualche fantasma.
Nell’ossessiva attenzione esegetica che la psicologia medioevale riserva al fantasma, quest’ultimo subisce un processo di polarizzazione e diventa il luogo di un’estrema esperienza dell’anima che può salire fino al limite abbagliante del divino o precipitare nell’abisso vertiginoso del male.
Nel descrivere il processo di formazione del fantasma, Avicenna si serve di una terminologia medica, descrivendo una quintuplice gradazione del senso interno come progressiva messa a nudo del fantasma dai suoi accidenti materiali. Da un fantasma, come quello impresso dai sensi all’immaginazione, ancora investito di accidenti materiali in quanto immagine individuata e non concetto astratto, si passa ad un fantasma sempre più messo a nudo su cui agisce la forza estimativa, la quale apprende le intenzioni non sensibili, ovvero ciò che è veicolato dall’oggetto esterno, ma che non può essere appreso dal senso esterno.
Averroè, inoltre, descrive dettagliatamente il processo che permette alla sensazione di imprimersi nell’immaginazione: l’occhio diventa uno specchio acqueo in cui si riflette il fantasma e che, come uno specchio qualunque, necessita di essere illuminato attraverso l’aria. Il processo conoscitivo viene così a configurarsi come un riflettersi di fantasmi di specchio in specchio, in cui la fantasia svolge un ruolo fondamentale poiché concepisce i fantasmi anche in assenza dell’oggetto.
Nel pensiero di Averroè, tuttavia, il fantasma è anche il punto di unione, la copula tra individuo e intelletto, dove con quest’ultimo si allude a quell’ente sovraindividuale che si congiunge ai singoli individui perché ciascuno di essi possa esercitare concretamente l’intellezione.
La principale obiezione mossa dagli anti-averroisti nei confronti di questo postulato è che, perché sia vero, si deve irrealisticamente ipotizzare che il rapporto che intercorre tra intelletto e fantasma sia lo stesso che si viene ad intessere fra specchio e uomo. Ma ciò che costoro non ricordano è che lo specchio, che abbiamo ricordato alludere all’immaginazione, è per eccellenza il luogo in cui l’occhio vede se stesso e la persona è ad un tempo vedente e veduta. E l’unione con la propria immagine, secondo una tradizione mistica che influenza gli autori arabi, simboleggia l’unione con il sovrasensibile. L’immagine riflessa nel miroers perilleus della fantasia acquisisce così una dimensione inaspettata, situandosi al vertice dell’anima individuale, al limite fra individuale e universale.
Ecco quindi qual è una delle eredità più feconde che la psicologia medioevale ha trasmesso alla cultura occidentale: concepire l’amore come processo fantasmatico, come un fenomeno che coinvolge memoria ed immaginazione intorno ad un’immagine dipinta o riflessa nell’anima dell’uomo. L’amore come immoderata cogitatio di un fantasma interiore, l’amore come processo irreale in quanto fantasmatico: sarà solo questa scoperta medioevale a spingere alle estreme conseguenze quella connessione fra piacere e fantasma già individuata nel Filebo platonico. Solo a partire dalla cultura medioevale il fantasma assurge al ruolo di origine e oggetto del sentimento amoroso: il campo d’azione di Eros si sposta dalla visione alla fantasia.
Non può quindi stupire che il luogo amoroso per eccellenza sia una fontana o uno specchio, proprio come nel Roman de la Rose, in cui l’azione prende avvio dall’innamoramento del protagonista generato dalla fontana di Narciso, miroers perilleus per eccellenza.
Noi moderni, tuttavia, siamo così abituati all’interpretazione che del mito di Narciso ha dato la psicologia moderna che finiamo col dimenticare che, in realtà, Narciso non è innamorato direttamente di sé, ma della propria (ancora una volta) immagine riflessa nell’acqua. Il Medioevo, a differenza di noi contemporanei, vede il tratto saliente della vicenda nell’essere amore di un’immagine, di un’ombra.
Questo è il motivo per cui tanto la storia di Narciso, quanto quella di Pigmalione, alludono esemplarmente al carattere fantasmatico di un processo essenzialmente inteso come eccessivo vagheggiamento (immoderata cogitatio) di un’immagine, sulla base di uno schema psicologico secondo cui ogni innamoramento sia idolatricamente rivolto verso un ymage.
La fontana di Narciso, così come quella di Amore, la descrizione delle quali segue gli episodi di Narciso e Pigmalione in un gioco di corrispondenze che identificano il poema, secondo quanto già detto, come un itinerario amoroso che si muove da un’immagine riflessa ad una artificialmente costruita, alludono entrambe all’immaginazione, dove dimora quello che deve essere considerato come il vero oggetto dell’amore: il fantasma.
Narciso, così come Pigmalione, secondo quella polarità caratterizzante la figura del fantasma, rappresentano contemporaneamente il fin e il fol amour e spezzano il circolo fantasmatico nel tentativo di appropriarsi dell’immagine come se fosse reale.