Se c’è un elemento, seppur astratto, incostante, quasi inarrivabile, a cui l’uomo aspira in maniera ostinata, spinto da un richiamo primordiale al pari di quello riproduttivo, è la felicità. Ovviamente non una felicità effimera e di breve durata, ma una costante sensazione, la quale nonostante gli altalenanti avvenimenti della vita, possa accompagnare l’uomo nel suo cammino terreno. Ci si allontana progressivamente dall’idea che la felicità sia soltanto da attendere una volta abbandonate le spoglie mortali e persino in una società fortemente religiosa come quella russa si comincia sempre più ad intendere la felicità come una cosa da vivere hic et nunc.
All’interno dei romanzi ottocenteschi questa ricerca prende forma attraverso alcune varianti della multiforme figura dell’uomo superfluo, ma è presente anche in alcuni romanzi, come Anna Karenina, dove si va ad indagare la felicità coniugale, laddove il matrimonio rappresentava, soprattutto per le donne, l’elemento chiave dell’esistenza. Questo è avvicinabile ad un cambiamento che si avverte negli stessi anni, specialmente nella prima metà dell’800, in Inghilterra, grazie alla figura di Jane Austen, la quale fa coincidere la ricerca della felicità terrena con la ricerca della felicità matrimoniale, scardinando la visione religiosa del puritanesimo inglese e affidando a questo momento cardine della vita femminile un ruolo centrale all’interno dei suoi romanzi. Le sue eroine sono finalmente donne in grado di decidere per il loro futuro sociale e sentimentale.
Evgenij Onegin di Puškin, Oblomov di Gončarov e Un eroe del nostro tempo di Lermontov
Uno dei personaggi chiave di questa riflessione in Russia non può non essere il puskiniano Evgenij Onegin, emblema di un tedio esistenziale che spinge il protagonista a cercare di dargli tregua cambiando in maniera spasmodica luoghi e attività. Ma come sintetizzato in maniera sublime nella filosofia senechiana “Animum debes mutare, non caelum”, trovare l’antidoto a questa continua sensazione di malessere e di insoddisfazione non è affatto facile, a conti fatti. Ed infatti spesso i personaggi, in un modo o nell’altro vi soccombono, come accade (insieme alle implicazioni del caso) all’indimenticabile Oblomov di Ivan Gončarov.
Allo stesso modo questo tedium vitae si mescola all’elemento irrazionale della crudeltà in quello che viene definito il primo romanzo psicologico russo, Un eroe del nostro tempo di Michail Jur’evič Lermontov.
La ricerca della felicità
Chiaro è a questo punto come la riduzione ad una mera divisione cronologica delle caratteristiche dell’uomo superfluo (лишний человек) come quella elaborata dal professor Frank Friedeberg-Seeley non potrà mai rendere giustizia ad un panorama così sfaccettato di elementi e situazioni. E chiaro è anche come ci sia molto da analizzare in questa serie di opere che per datazione, argomento e ambientazione potrebbero sembrare così lontane ad un lettore occidentale, ma che in realtà racchiudono dentro di esse una riflessione che è più che attuale. Basti pensare al mondo post boom economico degli anni ’50. Si è passati da una società basata su oggetti strettamente necessari ad una dove il superfluo diventa più essenziale del realmente essenziale. E la vita si muove intorno al continuo inseguimento di una felicità tangibile che però è in esponenziale crescita e finisce per fagocitare la felicità che l’ha preceduta, la quale ora sembra così infima al cospetto della nuova. Ci appare così difficile immaginare che prima ci si potesse accontentare davvero di un qualcosa che è ormai così obsoleto. Ecco la soddisfacente insoddisfazione: nel vuoto fra un oggetto del desiderio fallace e un altro si crea quella dolceamara sensazione che permette a questo meccanismo di restare in piedi. Il consumismo ha creato ex novo una serie di insoddisfazioni che prima non esistevano, ha permesso che la felicità derivasse da un oggetto, il quale potesse puntualmente essere sostituito poco dopo da una sua versione migliore. Nonostante possa sembrare come una situazione di costante stress, in realtà non si tratta che di un incontrollato moto della mente e dell’anima alla perpetua ricerca di quella fiamma vitale ed inspiegabile contenuta all’interno degli uomini. Il trasferire questa ricerca all’interno di oggetti serve solo da diversivo: cercare dentro l’anima alla ricerca di elementi sempre più preziosi implica dover scandagliare in profondità. E non sempre questo porta a buoni risultati.
La ricerca della felicità messa in atto dalla maggior parte dei personaggi nei romanzi dell’epoca sublima questo concetto attraverso diverse figure, ma alcune avvisaglie di questo male di vivere si possono incontrare anche nelle vite dei loro stessi autori. Si pensi alla complessa vita di Lev Tolstoj, all’insegna di un’insofferente cambio di luoghi (cresce a Jasnaja Poljanja, poi si trasferisce a Kazan per l’università per poi vivere dal 1848 al 1851 facendo la spola fra la sua tenuta, Mosca e Pietroburgo alla ricerca di una vita mondana che puntualmente finiva per voler scambiare con la vita privata di campagna).
La modernità del romanzo russo
Eppure l’insoddisfazione non è sempre un sentimento negativo. Analizzandola bene ci si rende conto che spesso è grazie ad essa se il mondo si muove, se gli uomini agiscono con decisione, se di fatto si evolvono. Il problema sorge però proprio quando questa voglia tutta umana di vivere sperimentando nuove esperienze straripa in un’ossessione impossibile da colmare. A quel punto, come testimonia la tragica figura di Evgenij Onegin, non resta altro che continuare a ballare quel ballo che porterà all’autodistruzione, o peggio, al perenne pentimento. Gli uomini superflui entrano quindi in una paralisi e proprio per questo motivo si arrendono a loro stessi. Perdono le donne che amano (Pečorin perde Vera, Oblomov perde Ol’ga, Onegin perde Tat’jana). Se dovessimo assegnare un vizio ad ognuno di loro peccherebbe Pečorin di malvagità, Oblomov di inedia, Onegin di suberbia. Eppure nessuno di loro è un protagonista monolitico, nessuno di loro è una macchietta bidimensionale. La grandezza degli autori dell’ottocento russo si è espressa proprio attraverso questa capacità di rendere completi e reali i loro personaggi, evitando di farli scadere in una banale tipizzazione. Ed è questo l’unico modo per permettere che l’immedesimazione scatti. Da non dimenticare come chiaramente la motivazione cardine della nascita di una figura come quella dell’uomo superfluo è l’instabile situazione politica dovuta al regime repressivo di Nicola I e alla progressiva perdita di libertà degli intellettuali. Siamo quindi lontani anni luce da quella sensazione di annichilimento e di paura figlia di quegli anni, eppure allo stesso tempo ci ritroviamo, in quei romanzi, pezzi della nostra quotidianità. Tutto ci soddisfa per brevi (o lunghi) attimi, ma nulla ci basta mai, perché nulla potrà mai colmare il vuoto. Quel vuoto può essere rappresentato dalla mancanza di una persona, di uno scopo, di una fede, di una certezza. Di una felicità che sembra essere un’evanescente ombra in un sogno, che più si cerca di rincorrere più sembra distante. L’horror vacui permea la vita di Evgenij, mentre invece del vuoto sembra pascersi Oblomov, il quale è però il più “puro” in questa schiera di uomini superflui, poiché per certi versi soltanto erede di un punto di vista sul mondo totalmente sbilanciato.
Il ruolo dell’amore in questa ricerca
L’altro grande elemento chiave, perno di tutta la questione, è l’opprimente insoddisfazione che nasce dallo stesso possedere le cose. Onegin disprezza l’amore di Tat’jana quando lo possiede, ma arriva a desiderarlo ardentemente una volta che non lo ha più. L’essere umano molte, troppe, volte disprezza ciò che ha e cerca disperatamente ciò che ancora non ha ottenuto. Ma nel momento in cui raggiunge il suo oggetto del desiderio, ecco svanire di colpo quell’ardente necessità. Ormai l’oggetto (o la persona) è posseduto, si può passare al prossimo. Soltanto quando se ne sentirà ancora la mancanza, come accade ad Onegin con Tatj’ana, allora riaffiorerà il desiderio. Nel non-possedere, l’amante si strugge, nel possedere la soddisfazione è già raggiunta, non serve più nient’altro. Nel primo racconto di Un eroe del nostro tempo infatti, il nostro protagonista si invaghisce della bellissima principessa del luogo e fa di tutto per ottenerla, arrivando addirittura a barattarla come se si trattasse di un oggetto. Ma una volta che Bela si innamorerà di lui, per Pečorin l’interesse sarà già svanito e trascurerà la ragazza fecendo sì che la vicenda si concluda con un tragico epilogo.
L’infatuazione per una donna è pari alla sensazione umana di possedere dentro di sé il soffio della divinità. Si può scegliere di spegnere quell’infatuazione, quel soffio di divinità. Oppure, come spiegato dalla letteratura stessa, partire alla conquista, alla ricerca e vivere un momento vitale. La conquista non è il fine ultimo, è soltanto la scintilla che fa partire quella che è realmente una felicità vicina a quella cercata. Senza dubbio si potrebbe anche ridurre il tutto ad una questione primordiale ed istintuale, quella di voler conquistare l’oggetto del desiderio come se si trattasse di una preda. Ed è soltanto nel caso in cui la preda dovesse rivelarsi difficile da conquistare, come spiegato dallo stesso Pečorin, che la caccia si rivela soddisfacente. Cercando di aggiungere un’ulteriore motivazione (che chiaramente va ad affiancare una feroce e travolgente passione) per cui il conte Vronskij e Anna si innamorano nel capolavoro di Tolstoj, si potrebbe applicare questa teoria. Il fatto che entrambi siano consapevoli dell’inizio di una storia d’amore tanto potente quanto distruttiva, che entrambi sappiano quanto proibita sia quell’attrazione fra loro, non fa altro che alimentare la voglia di poterla vivere. In questo caso non si tratta di mancanza di amore da parte di uno dei due, quanto di un’impossibilità esterna.
Proprio questo loro andare contro le convenzioni della società dell’epoca rappresenta un deterrente e allo stesso tempo un fuoco per la loro relazione. Questa spinta vitale e sessuale nei due li rende pieni e “felici” e permette loro di far sì che il loro amore si faccia strada nella più dissestata delle strade, ma viene purtroppo castrata dalla società, una società che chiaramente va compresa e contestualizzata, non pronta ad accettare un così forte sovvertimento. La loro individualità che prende forma nel rapporto a due si scontra contro una collettività nella quale la felicità è vista come qualcosa da vivere senza sconvolgere lo status quo. Il “noi” vince sull’ “io”. Il singolo nella sua ricerca soccombe: Anna e Vronskij sono due individualità unite dall’amore ma divise da regole prestabilite, le quali non riusciranno mai a diventare un “noi” e quindi ad integrarsi.