A settembre il governo di Narendra Modi ha fatto passare tre leggi che, a suo dire, libereranno l’agricoltura. Quel che è certo è che la liberalizzeranno e privatizzeranno.
All’inizio di novembre scorso, più di 200 sindacati agricoli di 22 stati indiani organizzavano un blocco stradale nazionale contro la riforma agraria introdotta all’inizio dell’autunno dal primo ministro Modi.
Come è iniziata la protesta
Il disappunto è legato, principalmente, all’abolizione del sistema tradizionale dei mercati “mandi”. Questo permette agli agricoltori di vendere direttamente i propri prodotti a punti di raccolta statali presenti nei centri rurali. Confrontandosi con il governo locale per il pagamento di eventuali dazi e tasse.
L’intenzione della riforma agricola, invece, è quella di favorire gli investimenti privati per produzione e distribuzione. Quindi, sottraendo potere agli stati locali, per stimolare la competitività nel settore agricolo.
Una delle più grandi paure per i contadini è che all’intermediario statale si sostituiscano, ben presto, monopoli privati. Quindi, disinteressati a pagare gli agricoltori allo stesso prezzo attuale.
Col passare delle settimane l’insofferenza è montata fino a degenerare in scene da guerriglia urbana, con le forze armate chiamate ad arginare la rabbia dei manifestanti, sfociata in episodi di violenza. Infatti, la questione riguarda il 70% delle famiglie indiane, dipendenti dal lavoro agricolo su piccoli appezzamenti e già in ginocchio dalla siccità.
L’assedio di Delhi
Mentre migliaia di persone scioperavano a sostegno del settore agricolo, il governo è tornato a riunirsi per discutere eventuali emendamenti alla riforma. La riforma, di stampo liberista, abolisce i “Mandi”, i mercati all’ingrosso gestiti dagli stati, in cui i contadini vendevano i loro prodotti, con un prezzo minimo garantito, e apre al mercato libero. Il timore degli agricoltori, che in stragrande maggioranza lavorano su terreni di piccolissime dimensioni, è di finire strangolati dalle corporation dell’agroalimentare, nei confronti delle quali non avranno alcuna forza contrattuale. La Corte Suprema indiana si è posta mediatrice trà le due parti.
L’impossibilità di giungere a un compromesso, nonostante i ripetuti negoziati, però, ha rinsaldato la resistenza degli agricoltori. Il primo ministro indiano Narendra Modi, riporta «BBC News», ha difeso le riforme, ma i sindacati le hanno paragonate a una «condanna a morte».
Intanto, decine di migliaia di agricoltori sono entrati a Delhi con mezzi agricoli e cavalli lo scorso 26 gennaio, nel corso di una marcia autorizzata. Rompendo le barricate della polizia. Gli scontri si sarebbero fatti particolarmente violenti, con il ferimento di quasi 400 poliziotti e di migliaia di manifestanti.
Anche i VIP appoggiano la rivolta
Questa protesta, che dura da mesi, sarebbe passata inosservata agli occhi internazionali. Se non fosse che alcuni VIP abbiano puntato il riflettore sulla questione.
Prima fra tutti, la pop star Rihanna, con un tweet.
“Perché non stiamo parlando di questo?”
Dopo di lei, sono seguiti a catena altri tweet di molti altri personaggi importanti. Per esempio, la giovane attivista Greta Thumberg e quello della nipote della vicepresidente Usa Kamala Harris, Meena.
L’intervento di celebrità nella questione, ha provocato la reazione di buona parte del mondo dello spettacolo indiano, timoroso di apparire poco nazionalista agli occhi del governo. Le star di Bollywood e molti sportivi hanno risposto a gran voce, con #IndiaAgainstPropaganda (India contro la propaganda) e #IndiaTogether (India insieme). Chiedendo agli stranieri di non intromettersi negli affari del loro paese. Ma non solo: il ministero degli Esteri ha accusato “personaggi stranieri” e “celebrities” di “sensazionalismo”.
“Ricorrere ad hashtag e a commenti sensazionalistici sui social media, non è né accurato né responsabile“
“Nessuna propaganda può scoraggiare l’unità dell’India“
Queste le dure risposte dei leader di alto livello del partito di Modi. Senza, però, fare allusioni specifiche.
Tra proteste violente e la disconnessione da internet
Intanto, continuano le violente proteste del mondo contadino. Ma non solo. Se già la repressione violenta delle proteste dimostra un certo affanno nello stato della democrazia indiana, la decisione delle scorse ore del governo di tagliare internet in alcune aree del paese ha peggiorato le cose.
Si è voluto togliere ai manifestanti agricoli il modo di parlarsi, organizzarsi e coordinarsi attraverso il web. E questo ha suscitato indignazione in tutto il mondo. A maggior ragione per via che sia stato attuato in zone dove i contadini stavano conducendo uno sciopero della fame.
Definita dal governo una misura per «mantenere la sicurezza pubblica», i contadini non hanno tardato a definirla «la morte della democrazia».
In India non sono nuovi a queste pratiche. Basti fare un salto a pochi anni più indietro. Nel 2019 era successa la stessa cosa nella regione del Kashmir, dopo che nella nuova costituzione veniva limitata la sua autonomia.
Una pratica che sta contribuendo a far precipitare il paese nelle classifiche globali sulla qualità della democrazia.
Suicidi, usura e clima
Tutto questo ha ampliato il quadro già al collasso della situazione agricola indiana.
A cominciare dalla crisi climatica incombente. Come certifica uno studio scientifico secondo cui la produttività della terra in India diminuisce all’aumento della temperatura media annuale nella maggior parte di 15 colture osservate tra il 1967 e il 2016.
Ma non è tutto, purtroppo. Un’analisi dei dati effettuata sui numerosissimi sucidi tra gli agricoltori avvenuti tra 2001 e 2018 nello stato del Maharashtra mette in relazione questi gesti estremi con “l’inefficacia dei monsoni, la scarsità d’acqua, la siccità, l’assenza di sicurezza sociale, di solidi meccanismi di approvvigionamento delle colture e l’aumento dei debiti“.
Tuttavia, il fenomeno dei suicidi dei contadini, che in precedenza era limitato a stati come Maharashtra, Telangana, Andhra Pradesh, ora ha attanagliato anche stati come il Punjab. E una delle cause è l’indebitamento contratto per sostenere la difficoltosa attività dei campi.
Uno studio del 2018 della Banca nazionale per l’agricoltura e lo sviluppo rurale (NABARD) ha mostrato che il 52,5% di tutte le famiglie di agricoltori era indebitato mediamente per 1.470 dollari.
Su questo scenario è piombata la strage del covid-19 coi suoi costi sociali, sanitari ed economici e, infine, il casus belli rappresentato dalle tre leggi regolatorie del sistema agricolo approvate senza consultare gli operatori del settore.
Ed eccoci alle proteste. Una polveriera che si alimenta anche del fumo delle stoppie che i contadini bruciano a cielo aperto.
Un mix tossico di un modello di sviluppo, già da tempo messo alle corde.