Gli oceani, così come li conosciamo, sono destinati a scomparire entro il 2048. Non ci saranno più barriere coralline e variopinte specie di pesci come siamo abituati a vederle attraverso le fotocamere dei subacquei in un documentario di Discovery Channel. O almeno, questo è lo scenario che descrive Seaspiracy, il film-documentario uscito in streaming su Netflix nel 2021, del giovane regista e interprete Ali Tabrizi.
Le acque riprese non sono di certo quelle screziate dai raggi solari e solcate dalla vecchia barca di un pescatore del Tirreno. Il film, infatti, descrive gli aspetti più controversi e sconcertanti della pesca industriale e quella che la FAO definisce INN, cioè pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata. Essa rappresenta oggi il principale metodo di approvvigionamento di pesce su larga scala. L’uomo la utilizza dagli anni ‘60, da quando cioè la popolazione mondiale ha cominciato a crescere a una media dell’1,5% l’anno. Alla crescita demografica si sono aggiunti poi il boom economico e una ricchezza più generalizzata, che hanno portato a un aumento del consumo di proteine animali, tra cui il pesce.
Esiste una pesca sostenibile?
“Esiste la pesca sostenibile?”. Questa è la domanda alla base del documentario, che però sembra lasciare spazio a un’unica risposta: no. Tabrizi, durante gli 89 minuti di riprese, tocca alcuni dei problemi più gravi legati a questa attività: la cattura e uccisione dei delfini da parte dei delfinari della baia di Taiji in Giappone, il commercio delle pinne di squalo, la distruzione delle barriere coralline a causa della pesca a strascico, fino ai legami tra pesca industriale e criminalità.
Seaspiracy ha avuto un successo immediato, ed è sicuramente grazie a reportage come questi che oggi un pubblico sempre più ampio conosce temi che spesso rimangono sconosciuti a chi non se ne occupa direttamente. Tuttavia, molte sono state le critiche rivolte al regista e ai suoi collaboratori. Le perplessità provengono sia da parte delle ONG e degli enti certificatori criticati nel filmato, che da membri della comunità scientifica e dagli stessi intervistati.
Le critiche: dati poco corretti…
Le principali obiezioni riguardano l’accuratezza dei dati che vengono forniti. Un esempio è quello della pesca accessoria. Le navi che la praticano, pescano usando enormi reti a strascico e spesso, insieme alle altre specie, catturano pesci o altri animali che non possono essere venduti. Questi animali, catturati in modo accidentale e ormai morti, vengono semplicemente ributtati in mare. Secondo Seaspiracy, il 40% del pescato è costituito dalla cattura accidentale, mentre il più recente rapporto della FAO limita questo problema al 10%.
Inoltre, Tabrizi non specifica che la pesca a strascico è la principale causa della cattura accessoria. Quindi, introducendo delle sanzioni alle navi che la praticano, come da alcuni anni stanno facendo l’Unione Europea e altri paesi, il problema potrebbe essere ridotto.
…scenari allarmanti…
Molte volte il documentario dipinge uno scenario che sembra ormai irreversibile, cercando di colpire la sensibilità dello spettatore con immagini forti e notizie allarmanti. Questo a discapito della veridicità delle informazioni scientifiche che riporta. Per esempio stima che il 90% delle barriere coralline scomparirà entro il 2048, devastate dalle gigantesche reti commerciali che non ne permettono la rigenerazione. Questo avviene a causa dalla pesca intensiva che porta alla scomparsa dei pesci dei cui escrementi i coralli si nutrono. Il problema è grave e reale, ma molti scienziati hanno fatto notare che il fatidico 2048 è stato ricavato da uno studio che risale al 2006, ormai datato e messo in discussione.
…e narrazioni parziali
Quanti di noi non hanno poi sentito parlare della plastica negli oceani e della Great Pacific Garbage Patch? Si tratta di un’isola di 700.000 km quadrati che si è formata dall’accumulo di rifiuti plastici nel Pacifico settentrionale. Secondo Seaspiracy il 46% di questi rifiuti proviene da materiali utilizzati per la pesca, come reti, boe, casse e lunghissime lenze. I registi accusano le ONG e chi cerca di sensibilizzare sul tema dei rifiuti gettati in mare, di concentrarsi solamente sui rifiuti di cui sono responsabili le persone comuni. Essi sono costituiti da cannucce, piatti, sacchetti e altri oggetti di plastica monouso e rappresentano lo 0,03% dell’isola.
Tuttavia, la plastica monouso è molto più leggera e quindi tende ad affondare e a deteriorarsi in tempi più brevi. Per questo i grandi e pesanti attrezzi della pesca industriale rimangono più visibili sulla superficie oceanica.
Per questo, il dato dell’isola del Pacifico non può essere esteso a descrivere il fenomeno su tutto l’oceano. Inoltre, negli ultimi anni, grazie anche a una maggiore sensibilità verso queste tematiche, sono stati inventati molti materiali biodegradabili per realizzare reti da pesca. Se le autorità imponessero strumenti di questo tipo si potrebbe quindi in parte ovviare al problema.
Una cospirazione?
Dopo aver di fatto sostenuto che una pesca sostenibile non esiste, l’unica soluzione possibile proposta dai registi di Seaspiracy è quella che tutto il mondo smetta subito e completamente di mangiare pesce. Tutto il settore della pesca viene presentato come una vera e propria “cospirazione”. Sembra un mondo in cui non ci si può più fidare di nessuno, nemmeno di quelle etichette che dovrebbero garantire la sostenibilità del pescato.
Come spesso accade però, la realtà è molto più complessa e sfaccettata. Innanzitutto, esistono tecniche di pesca, come quella locale e su piccola scala, che garantiscono all’oceano il tempo di rigenerarsi e quindi ci permettono di continuare a pescare.
Inoltre, per molti paesi che affrontano il problema della fame, il pesce rimane una risorsa fondamentale. Secondo la FAO, dei primi 30 paesi consumatori di pesce al mondo, 17 sono a basso reddito o presentano un deficit alimentare. La pesca costituisce per loro anche un’importante risorsa economica, infatti per la maggior parte dei pescatori di queste zone, essa rappresenta l’unica attività di sussistenza.
Sicuramente saremmo costretti a ridurre il nostro consumo di pesce per far sì che l’oceano non si esaurisca. Davvero per molto tempo ciò non è avvenuto anche a causa della mancanza di volontà e degli interessi politici ed economici in gioco, ma la soluzione non è una sola e così categorica.
Un documentario sì, ma non di scienziati
In risposta alla dubbia correttezza di alcuni dati di Seaspiracy, Tabrizi e gli intervistati hanno precisato di non essere degli scienziati. Essi sostengono che lo scopo del loro prodotto non era l’accuratezza del dato scientifico bensì la rappresentazione di uno scenario che prima o poi è destinato a realizzarsi, non importa se tra 26 o 50 anni.
Tuttavia, la pesca industriale a molte persone può sembrare lontana dalla confezione di salmone che acquistano al supermercato e i suoi effetti non balzano sempre davanti agli occhi. Non tutti gli spettatori sono esperti del settore che riescono a scovare informazioni scorrette o parziali. Molti guardano documentari come questo proprio per cercare di conoscere maggiormente queste realtà e si fidano delle informazioni che vengono loro fornite. Perciò un documentario che cerca di sensibilizzare su questo tema ha il dovere di farlo nel modo più accurato possibile.
Purtroppo, di fronte a una realtà come quella attuale, costellata di fake news e narrazioni parziali che appoggiano posizioni personali e polarizzate, le critiche sollevate creano dubbi e confusione. Questi possono portare gli spettatori a interpretare nel modo sbagliato il messaggio o a metterlo totalmente in dubbio, e quindi a sottovalutare il problema. Mentre invece la maggior parte dei fenomeni descritti sono reali e vanno affrontati con urgenza.