Tempi di attesa biblici, mancanza del personale sanitario, medici e ricercatori precari e sottopagati, sono solo alcuni dei problemi della nostra sanità pubblica nazionale. Inoltre il Coronavirus non ha certamente migliorato la situazione; al contrario ha reso ancora più evidenti le carenze che già erano presenti.
Dopo il lockdown la situazione si è a poco a poco ristabilita, grazie alla discesa vertiginosa dei contagi in tutta Italia. Ma i danni, anche dal punto di vista sanitario, restano ingenti e difficili da recuperare in breve tempo. Visite spostate a data da destinarsi, interventi cancellati, medici e infermieri sull’orlo dell’esaurimento nervoso.
Secondo il Centro di ricerca in Economia e management in Sanità dell’Università Carlo Cattaneo, sarebbero saltati 12,5 milioni di esami diagnostici, 20,4 milioni di analisi del sangue, e 13,9 milioni di visite specialistiche. Numeri spaventosi che hanno spinto molti italiani ad affidarsi alla sanità privata.
Tuttavia anche in questo ambiente non è tutto così idilliaco come possa sembrare. Anche qui ci sono delle problematiche da risolvere il prima possibile. Ad esempio, nelle Marche la Cisl denuncia oltre 4.000 dipendenti senza contratto nazionale.
Sempre nelle Marche, il 20 aprile la Regione prometteva 20 milioni agli operatori sanitari, impegnati nella lotta contro Covid-19; soldi mai arrivati. Il presidente della Regione Marche, Luca Ceriscioli, a maggio temporeggiava in questo modo: “A distanza di un mese questi fondi non sono stati ancora erogati perché serve per il loro utilizzo l’accordo con i sindacati”.
A rendere ancor più spiacevole la vicenda è che questi soldi non rappresentano premi dati al personale sanitario per il loro servizio ammirevole (anche se li meriterebbero); ma “somme contrattualmente dovute agli operatori sanitari”. Così le definisce Guido Castelli, ex sindaco di Ascoli, chiedendo a Ceriscioli che fine abbiano fatto questi 20 milioni.
Però una cosa è stata fatta durante la pandemia dalla Regione Marche: il Covid Hospital di Civitanova Marche. Una struttura gemella di quella della Fiera di Milano, che ha iniziato ad ospitare da maggio i primi malati di Covid-19. Anche questa scelta, tuttavia, ha destato non poche critiche. In primo luogo perché doveva essere smantellata, proprio come quella di Milano, una volta terminata la criticità del periodo. In secondo luogo perché i dipendenti (in totale 96) sono stati sottratti a strutture sanitarie in cui c’era bisogno del loro aiuto. I sindacati denunciano di non essere mai stati consultati prima di questa scelta e che si tratti di “una pezza per coprire la mancanza di personale”.
Tuttavia la carenza di personale si registra a livello nazionale. Secondo la Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (FNOPI) il rapporto tra medici e infermieri, che dovrebbe essere di uno a tre, spesso in Italia si riduce alla parità (1:1), non garantendo un adeguato impegno assistenziale.
La causa di questa situazione sono i tagli che sono stati fatti durante gli anni e che iniziano a farsi sentire, in un Paese dilaniato da un’ingente crisi economica e da una situazione sanitaria sempre più critica. Basti pensare che nel 2012, per esempio, il governo Monti annunciò un taglio della spesa sanitaria prevista per i tre anni successivi pari a circa 25 miliardi di euro.
Per questo motivo sarebbe opportuno riscrivere le nostre priorità in quanto Paese e investire in infrastrutture e macchinari, che possano rivelarsi utili ai cittadini in futuro, prima che un’altra crisi sanitaria metta l’Italia in ginocchio una volta per tutte.
La testimonianza di S. ed E.
Raccontaci brevemente la tua esperienza.
S: Giovedì scorso il mio medico ha fatto la richiesta all’ASL per farmi fare un tampone per il Covid in via del tutto precauzionale, dal momento che i giorni prima avevo avuto la febbre. Venerdì sono venuti a visitarmi due medici e a farmi il tampone. Non ho avuto molte specifiche e sono stata io a chiedere come avrei dovuto comportarmi e se ci fosse stato un numero a cui fare riferimento. Ma mi hanno detto che il numero non c’era e che avrei dovuto contattare il mio medico per il risultato dopo 48 h.
Lunedì ho provato a chiamare il mio medico ma il tampone ancora non c’era. Allora mi sono mossa per cercare dei numeri della ASL. A Urbino mi hanno detto di chiamare il giorno dopo, ma nemmeno in quell’occasione era pronto. Alla fine mi ha chiamato il mio medico mercoledì mattina. Era negativo. Mi è sembrato assurdo rimanere in quarantena una settimana per aspettare l’esito di un singolo tampone, sospendendo i miei impegni lavorativi. Anche mia sorella è rimasta a casa con me, poiché considerata possibile infetta.
Durante quelle lunghe giornate di attesa, come era “l’aria che tirava” dentro casa?
E: In quei giorni fra noi due c’era tensione, dovuta al fatto che i giorni passavano e non ricevevamo nessuna risposta. Non potevamo stare vicine, non conoscendo l’esito del tampone. Tuttavia era difficile mantenere sempre le distanze, vivendo in una piccola casa. Io ero un po’ innervosita dalla situazione. Avevo dovuto annullare un weekend (già prenotato da tempo) con le amiche e stare a casa circa una settimana.
Per me erano appena iniziate le vacanze dopo un’interminabile sessione estiva ricca di esami universitari e sapevo che a breve avrei dovuto ricominciare a studiare. Non sto dicendo che se fosse successo in un altro periodo sarebbe stata una situazione piacevole, ma sicuramente più gestibile. Attualmente ci trovavamo in una casa molto piccola, dove passava poca luce, e il fatto di non poter uscire per una settimana in piena estate, non è stato affatto semplice. Mia sorella vedeva che ero nervosa e le dispiaceva perché pensava fosse colpa sua.
Credi che nelle altre regioni la sanità sia migliore rispetto a quella marchigiana?
S: Quello che so è che in Emilia-Romagna entro 24h i pazienti hanno l’esito (a volte anche meno) e che i laboratori lavorano anche il sabato e la domenica. So queste cose perché lavoro nell’ambito ospedaliero e le vedo con i miei occhi. I tamponi che sono stati fatti nelle Marche sono un sesto di quelli fatti in Emilia-Romagna. Ovviamente c’è da considerare anche che il numero della popolazione è diverso; ma ciò non toglie il fatto che anche le Marche siano state zona rossa e dovrebbero essere controllate maggiormente. I camion contenenti i tamponi partono anche 4/5 volte al giorno da Cesena; a Pesaro quelli che fanno la mattina li portano solo al pomeriggio. Almeno questo è quello che mi hanno detto i medici che lavorano lì.
Secondo te problematiche simili, quali l’estrema lentezza nel fornire risultati, erano già presenti prima del Covid-19; o sono derivate da esso?
E: Secondo me nessuno può essere pronto davanti ad un’emergenza sanitaria simile. Però penso anche che il CoVid 19 abbia messo in evidenza le problematiche che ci sono e già c’erano in Italia. Io, da cittadina, non l’avevo mai sperimentato in prima persona perché non ho mai avuto (fortunatamente) particolari problemi da risolvere o interventi da fare. Mi limitavo semplicemente a fare piccoli controlli o analisi del sangue. Ho avuto solo un familiare che ha seguito un percorso più complesso, ma si è affidato agli ospedali dell’Emilia-Romagna, in particolare di Bologna.
Pensi che l’Italia potrebbe reggere una seconda ondata di Coronavirus, dal punto di vista medico-sanitario?
S: Dal punto di vista della sanità, penso di sì. Ora sappiamo meglio come gestire la situazione. A questo punto credo che il problema sia più economico. Da una parte la soluzione di chiudere tutto non può più essere attuata; dall’altra non siamo parimenti pronti a ritrovarci gli ospedali strapieni come qualche mese fa, in caso di mancata quarantena.
Secondo voi come si potrebbero risolvere le carenze della sanità pubblica nazionale?
E: Bella domanda ma difficilissima! In realtà come Paese siamo rinnomati all’Estero per la formazione del nostro personale sanitario. Tuttavia ancora c’è una differenza abissale fra Nord e Sud. Molti, infatti, si spostano al Nord per interventi specifici perché nelle loro città non ci sono adeguate infrastrutture per operarsi. Non oso immaginare cosa farebbe successo se il Covid fosse scoppiato al Sud. Bisognerebbe cambiare l’organizzazione. I fondi sono distribuiti equamente in tutte le Regioni in base alla popolazione che vi risiede e al “peso” dei cittadini. Quindi viene da chiedersi come sia possibile che esistano ancora ospedali fatiscenti e non adatti a determinate problematiche.
S: Sicuramente le divisioni regionali non ci dovrebbero essere. Penso sia un problema organizzativo e non di inefficienza del personale sanitario. Le regioni hanno un determinato budget che poi viene distribuito nelle province per le aziende sanitarie. I soldi ci sono ma dipende tutto da come il denaro viene utilizzato e se si sono raggiunti gli obiettivi prefissati. Perché è chiaro che, in caso contrario, se non sono raggiunti in un certo periodo, l’anno dopo lo Stato non darà più gli stessi soldi alla Regione. Quindi è un cane che si morde la coda continuamente. Anche perché molte volte i soldi vanno alla criminalità organizzata. A tal proposito servirebbe un controllo più accurato.
Ringraziamenti:
Ringrazio S. ed E. per avermi contattata e per il tempo che mi hanno dedicato. Penso che sia importante dare voce anche a quelle persone che hanno sperimentato in prima persona delle piccole ingiustizie, per poi riflettere sul problema generale e più complesso che si sta andando a trattare.
Lo squilibrio che esiste fra le Regioni, per quanto riguarda la sanità, non è più accettabile. Nessuno dovrebbe essere penalizzato in base al luogo in cui risiede. Il Covid-19 ci ha insegnato che non è sempre possibile potersi spostare in un’altra regione per curarsi. Ragion per cui diviene fondamentale creare infrastrutture all’avanguardia in tutte le parti d’Italia, cosicché la salute possa restare diritto di tutti.