La prima fotografia di finzione risale al 1840 e da quel momento sono stati moltissimi coloro che hanno creato delle vere e proprie messinscene: poteva sottrarvisi uno degli artisti più rivoluzionari di sempre?
Le immagini accompagnano da sempre la vita dell’uomo; e da circa due secoli anche la fotografia ha iniziato a farne parte. Risale, infatti, al 1826 la primissima immagine fotografica della storia: una semplice (per così dire) veduta da una finestra di campagna.
A realizzarla fu Joseph Niépce, chimico e inventore francese.
Da quel momento il suo sviluppo fu inarrestabile, anche se il riconoscimento come arte, al pari di pittura e scultura, non fu affatto immediato.
Coloro che non la ritenevano degna di tale titolo sostenevano che fosse una tecnica troppo mimetica, crudelmente fedele alla realtà. Ancora oggi, non a caso, si tende a considerare “vero” tutto ciò che vediamo in una fotografia, dimenticandoci che spesso ciò che vediamo è frutto di modifiche.
La prima fotografia di finzione
Fotografie che non raffigurano la realtà. Nulla di nuovo, a dirla tutta.
Già nel 1840, tale Hippolyte Bayard, anch’egli francese, per vendetta realizzò un autoscatto dove inscenava la propria morte per annegamento, accompagnato da una scritta che iniziava così: Questo che vedete è il cadavere di M. Bayard,…
Bayard realizzò quella che può essere considerata la prima fotografia di finzione della storia. Da quel momento si capì, quindi, che anche la fotografia poteva fingere; ma soprattutto che la finzione fotografica poteva essere credibile.
Ed è proprio su questo presupposto che nacque Rrose Sélavy.
La prima apparizione di Rose (quando ancora aveva una sola erre nel nome) avvenne nel 1921 in uno scatto realizzato da Man Ray, uno dei protagonisti del Dadaismo d’oltreoceano. Si tratta di una fotografia nella quale la donna si mostra elegantemente vestita con un cappello a motivi geometrici e una pelliccia. Anche la posa delle mani è elegante, lo sguardo indagatore.
Lo stesso anno la donna realizzò quella che viene considerata la sua opera più emblematica, una boccetta di profumo. L’Eau de Voilette, storpiatura elegante di ”acqua da toeletta”, rappresenta un tributo ad una poesia di Arthur Rimbaud, Les Voyelles, poeta amato dallo stesso Man Ray. Confezionato all’interno di una scatoletta di velluto viola, la sua etichetta riporta le iniziali RS e una fotografia con il volto della donna stessa, che nel frattempo aveva cambiato il proprio nome in Rrose, quasi per renderlo meno banale, meno floreale.
Ma chi è veramente Rrose Sélavy?
Rrose Sélavy è in realtà l’alter ego di un artista, una donna immaginaria nata nella mente di Marcel Duchamp.
«Volevo cambiare la mia identità e dapprima ebbi l’idea di prendere un nome ebraico. Io ero cattolico e questo passaggio di religione significava già un cambiamento. Ma non trovai nessun nome ebraico che mi piacesse, o che colpisse la mia immaginazione, e improvvisamente ebbi l’idea: perché non cambiare di sesso?»
Duchamp nacque nel 1887 in un piccolo paesino della Normandia, ma riuscì a collezionare i primi successi artistici già a 25 anni, diventando ben presto uno degli artisti più rivoluzionari del XX secolo: celeberrimi sono ancora oggi i suoi ready-made, oggetti d’uso comune e industriale elevati ad opera d’arte, come La Fontana e La ruota di bicicletta.
Attraverso questa idea apparentemente banale (anche se è bene ricordare che siamo negli anni Venti del Novecento), Duchamp stravolse per sempre il concetto di arte.
Dando vita e impersonando Rrose, trasformò sé stesso in un ready-made, utilizzando il proprio corpo e la propria identità come base di un assemblaggio.
Il nome Rrose Sélavy, se pronunciato velocemente, si può tradurre con “Eros c’est la vie”, “Eros: così è la vita”, oppure anche con “Arroser la vie”, “Brindare alla vita”.
I giochi di parole hanno sempre affascinato Marcel Duchamp.
Una donna artista
Dotata ormai di un’immagine e di una biografia, Rrose si armò anche di un biglietto da visita. Era infatti diventata un’artista, una creatrice.
È sua la Fresh Widow, una finestra con pannelli di cuoio neri al posto del vetro, che dovevano espressamente esser lucidati ogni giorno.
Tutto questo, ma in particolare la presenza sulle fotografie, portarono a credere che la donna esistesse veramente. Duchamp è stato in grado di costruire un immaginario. Rrose non esiste ma la fotografia la rende vera. È una performance.
Riuscì a costruire una finzione verosimile, anche grazie al fatto che la fotografia in quegli anni era già divenuta una dimensione credibile. Risalgono infatti a questo periodo le prime fotografie e reportage di guerra.
Un equilibrio delicato
Quello tra realtà e finzione è tutt’oggi un equilibrio fragile, che interessa la fotografia in quanto medium “ingenuo” per antonomasia, costantemente in bilico tra invenzione e riproduzione del reale. Da circa quarant’anni gli sviluppi tecnici che hanno anche portato all’avvento del digitale hanno dato inizio ad accesi dibattiti sulla sua parzialità.
Ma già precedentemente, in molti (Duchamp è stato solo uno tra tanti) avevano intuito la capacità del mezzo fotografico di essere ambiguo e la sua capacità di ingannare l’occhio dell’osservatore.