lunedì, 18 Novembre 2024

“Rifkin’s Festival”: analisi di uno degli ultimi film di Woody Allen in vista dell’uscita di “Coup de Chance”

Maggio 2021: la primavera dei cinema. Le sale rifioriscono dopo un inverno fin troppo lungo e la macchina cinema rimette in moto degli ingranaggi che ha tenuto fermi fin troppo.
Rifkin’s Festival arriva in questa rinascita, quasi come un monito, un segnale profetico. Figlio di un regista bulimico di cinema e ormai esule, il film sembra il riparo di Woody Allen nel guscio protetto delle sue nevrosi e dei suoi amati sfondi europei.

Il Vecchio Continente, infatti, esercita da sempre un fascino potente nei confronti del cineasta americano il quale, oltre alla sua adorata New York, ha definito Parigi e Venezia come le sue città del cuore. L’Europa, oltre che una scelta, rappresenta ora per Allen soprattutto l’unico luogo dove egli possa continuare a fare cinema, dopo le accuse di molestie nei confronti della sua figlia adottiva Dylan e il conseguente ostracismo da parte dei produttori americani. Un film che quindi è nato sotto il segno di una “fuga”, e che ha anche subito la sorte che purtroppo è toccata alla maggior parte dei titoli usciti fra il 2020 e il 2021, finendo per uscire nelle sale italiane con sei mesi di ritardo.

La trama del film

La trama di Rifkin’s Festival potrebbe essere riassunta piuttosto brevemente: un uomo di una certa età, Mort Rifkin (Wallace Shawn), ex insegnante di cinema sposato con la bellissima Sue (Gina Gershon), parte da New York per accompagnare quest’ultima al Festival Internazionale del cinema di San Sebastián. Qui la donna rimarrà però affascinata da un uomo molto più giovane, il regista di cui si occupa come press agent. Mort invece troverà un’altra gradita compagnia femminile.

Rifkin’s Festival all’apparenza potrebbe sembrare l’ennesimo film in cui Woody Allen racconta sé stesso, in cui il suo alter-ego, che si tratti di una versione giovane (Un giorno di pioggia a New York), adulta (Midnight in Paris), oppure vicina all’età attuale del regista (come in questo caso), esprima di fatto i modi di fare e di comportarsi di quello che al secolo risponde al nome di Allan Stewart Königsberg.
E in effetti lo è: Woody è sempre uguale a se stesso, ma sempre in evoluzione.
Non si può infatti non notare come la continua e multiforme evoluzione di questo ego (spropositato oppure mai accettato, o forse entrambe le cose?) in Rifkin’s Festival si mescoli a una inedita visione sull’industria cinematografica e anche sulla critica contemporanea, che senza dubbio mancava alla più recente produzione alleniana e che invece sembrerebbe andare indietro di qualche decennio, alla meravigliosa scena del cinema di Io e Annie.

Rifkin’s Festival come testamento artistico

Rifkin’s Festival in questo senso ospita in sé una grande caricatura comica, quella del personaggio di Luis Garrel, Philippe (a molti non è passata inosservata la scelta di assegnare al giovane attore francese il nome del suo “pesante” padre), regista di film “impegnati” di grande successo. Questa occasione permette ad Allen una meravigliosa, cinica e più che mai attuale battuta di risposta alla “nobile” intenzione di Philippe di voler tentare attraverso il suo cinema, di riappacificare israeliani e palestinesi. “Sono contento che si dedichi alla fantascienza” la risposta.

Attraverso Rifkin, oltre alla sua stessa mordace ironia, Allen esprime tutto il suo amore per il cinema dei grandi registi, quello con cui lui è cresciuto e quello che Philippe cerca pallidamente di imitare (a più riprese Rifkin giudica assolutamente senza senso il paragone tra Philippe e il Godard di Jules e Jim), senza di fatto conoscerlo. Il film diventa quindi il pretesto perfetto per mescolare due delle cose preferite del regista americano: la psicoanalisi e il cinema. Attraverso i sogni di Rifkin (la cui storia, va ricordato, nasce proprio come lunga narrazione che prende vita nello studio di un analista), Allen dà sfogo a quella che è una geniale e riuscitissima operazione di omaggio e di autocelebrazione. Ricreando in bianco e nero numerose scene dei grandi film del passato, ispiratori e guide del cinema alleniano, il regista comunica che lui di fatto è uno di loro, che all’interno di questa celebrazione c’è anche un intento di trovarvi uno spazio. A quegli inarrivabili modelli riesce ad aggiungere se stesso e tutto il cinema da lui prodotto in oltre cinque decenni di carriera.

Di fatto il ciclo del cinema è come il cerchio della vita disneyano. Quello che per Allen hanno significato i maestri che lo hanno preceduto, ora Allen inevitabilmente lo rappresenta per i suoi successori. Ed è emblematico che un film così arrivi a fine carriera. Senza dubbio Rifkin’s Festival rappresenta in questo senso una sorta di testamento artistico non ufficiale. I film che si susseguono nei sogni di Mort comprendono, tra gli altri, l’ felliniano, al cui interno vari personaggi si confrontano con lui in dialoghi meravigliosamente ironici, Quarto potere, teatro di uno stralcio dell’infanzia di Mort, Persona, luogo di incontro delle due donne protagoniste in una scena che diventa commedia pura, e soprattutto Il settimo sigillo, con un’inedita morte in versione Christoph Waltz, il quale dispensa consigli sulla salute e tenta di spegnere con l’ironia quella sete esistenziale propria di Mort alias Woody.

I collegamenti di Rifkin’s Festival con gli altri film

Oltre a questo, il film dà grande spazio ad una tematica che ha attraversato a volte le opere alleniane, ma che mai come in questa sembra essere così intensa: l’accettazione. Rifkin accetta la fine del suo matrimonio senza troppa resistenza perché sa che si tratta di una cosa inevitabile. Accetta che la donna di cui era innamorato prima del suo matrimonio sia finita con suo fratello (più prestante e meno cervellotico), anche se la cosa per certi versi continua a tormentarlo nel suo inconscio (nel bellissimo sogno “ambientato” in Fino all’ultimo respiro di Godard).

L’unica cosa che, come da buona tradizione alleniana, il suo alter-ego non riesce ad accettare è la morte. Ed infatti guarda caso la sua boccata d’aria fresca sarà rappresentata proprio dall’anti-morte per eccellenza, la bellissima e cinefila dottoressa Jo Rojas (Elena Anaya). L’ipocondria di Mort ha finalmente uno scopo: quello di vedere e rivedere Jo. Ella quale rappresenta per lui quello che serve per sentirsi a suo agio nella deliziosa cittadina di San Sebastián, colorata delle stesse tinte che hanno caratterizzato l’altro grande film spagnolo di Allen, Vicky Cristina Barcelona.
Un altro elemento che lega i due film è la presenza anche qui di un pittore tormentato e inquieto, interpretato da Sergi López e non più da Javier Bardem. Paco, questo il suo nome, è infatti il marito fedifrago della dottoressa. Jo, però, sembrerebbe essere incapace di porre fine ad una relazione fatta di continui litigi e silente accettazione della violazione di un patto. Ed ecco di nuovo, l’accettazione. Allen torna ad esplorare la tossicità delle relazioni (fin troppo spesso i suoi personaggi portano avanti relazioni senza senso e finiscono per essere preda di fulminee passioni), il tradimento e la fedeltà. Jo e Mort sono i “fedeli”, contrapposti invece a Sue e a Paco. Come Sue ammette, il compito di porre fine ad un matrimonio al capolinea spetta sempre a qualcuno. Per Jo è invece quasi impossibile liberarsi di Paco, perché la sua accettazione ha raggiunto l’esatto opposto di quello che invece ha maturato Rifkin. L’uno accetta la fine, l’altra la continua non-fine.

Conclusioni

Per concludere, quello che tormenta di più il nostro protagonista è la ricerca del romanzo perfetto, che finalmente gli permetta di mettere un punto sulle sue velleità artistiche. In questo non è altro che la versione senile del Gil di Midnight in Paris. Il problema è che Rifkin ha, si potrebbe dire giustamente, delle aspettative molto alte. Se non è del livello di Joyce o di Dostoevskij non ha senso scriverlo. Ed è così che lo scrittore rimane paralizzato dentro la sua stessa opera, si sente incastrato dai grandi modelli. Mort nei confronti dei suoi maestri si trova nella stessa posizione di Allen. Ma il regista il suo posto fra i grandi lo ha trovato, eccome.

Veronica Orciari
Veronica Orciarihttps://www.sistemacritico.it/
Classe 00. Nata a Fano, dopo la maturità classica ho deciso di spostarmi nella città che più amo al mondo, Roma, per seguire il corso di lingue alla Sapienza. Studio lingua, storia e letteratura russa, ma odio il freddo. Adoro il cinema oltre ogni cosa e infatti mi sto diplomando in Critica e Giornalismo Cinematografico presso Sentieri Selvaggi. Insieme a due mie amiche ho dato vita al festival culturale per giovani "SayFest Fano". Adoro mangiare, vivere per un po' in giro per l'Europa e scrivere poesie.

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