Ha vinto il sì! Un netto ed impareggiabile consenso per la riduzione del numero dei parlamentari è stato il risultato del referendum costituzionale della scorsa settimana. Ora i volti della Camera e del Senato cambieranno radicalmente e il loro componenti diminuiranno da 945 a 600 (rispettivamente da 630 a 400 e da 315 a 200).
Dunque, la partita è stata giocata, il popolo ha espresso la sua volontà e la democrazia ha certamente vinto. Ma era necessaria una riforma di questo tipo? Cosa accadrà adesso?
Andiamo con ordine.
Fronte del sì, fronte del no
Nel periodo precedente al voto si sono sentite molte opinioni contrastanti. Tra i principali sostenitori della riforma c’è stato senza dubbio il Movimento 5 Stelle che ha esaltato lo stop agli sprechi e il risparmio in termini economici. A ruota, lo hanno seguito Lega, Fratelli d’Italia e PD, seppur con le consuete spaccature interne. Renzi e Berlusconi invece hanno optato per la cosiddetta “libertà di coscienza”, mentre +Europa e Azione per un secco e deciso no.
Alcune delle ragioni dei fautori del sì riguardano la netta riduzione dei costi della politica, lo snellimento del Parlamento, che potrebbe renderlo più efficiente e funzionale, e l’allineamento formale con il resto dei Paesi europei.
Al lato opposto ci sono le ragioni del no: la critica all’irrisorio futuro risparmio (tanto osannato dai 5S) e i giudizi negativi circa la perdita di rappresentanza, l’allontanamento del Parlamento dal territorio e un maggior potere ai leader derivante dalla minore capacità di confronto.
Il problema della rappresentanza
Dunque le ragioni del no sono molte e tra queste spicca, forse, la più importante: la perdita di rappresentanza politica. Già nel 1946 ci si era posti il problema ma una una nota dell’Assemblea Costituente chiarì ogni eventuale dubbio. Soltanto dopo una lunga e puntuale discussione si decise infatti che il Parlamento italiano sarebbe stato eletto proporzionalmente al numero di abitanti, quindi un deputato ogni 80 mila e un senatore ogni 200 mila persone.
Il dibattito ruotò attorno al rapporto tra numero di abitanti e numero di parlamentari. A tal proposito, si riporta un breve estratto della nota, nella quale il costituente Foschini disse:
“Le popolazioni considerano sempre il Deputato che hanno eletto anche da un particolare punto di vista. […] Un Deputato non riuscirà mai a soddisfare le necessità di una massa di 150.000 abitanti”.
D’altro canto, il costituente La Rocca incalzò affermando che: “Restringendo il numero dei Deputati, si potrebbe far sorgere il sospetto di essere animati dal proposito di soffocare la volontà delle minoranze”.
Dunque si arrivò ad un’unica conclusione nonostante i pareri contrastanti. Avere un numero di parlamentari adeguato alla progressiva crescita demografica fu considerato un diritto necessario e una richiesta da e per il popolo, allora martoriato dalla guerra.
Durante quell’eccezionale decennio frenare la volontà popolare attraverso la riduzione della rappresentanza avrebbe risvegliato la paura del ritorno ad un regime di stampo fascista.
Oggi, anche se non si parla di dittatura, si possono sicuramente trovare delle analogie. La rappresentanza è ancora ugualmente vitale per le province e, proprio come affermava Foschini, i politici pubblicizzano e risolvono alcune battaglie territoriali direttamente da Roma. Esprimere la volontà di 150 mila abitanti, dunque, diventa difficile e tutto questo non sarebbe sicuramente possibile.
La riforma del 1963
L’assetto parlamentare che abbiamo oggi (anche se ancora per poco) è frutto di una riforma costituzionale del 1963. Questa prevede la possibilità di fissare il numero dei deputati a 630 e quello dei senatori a 315 unità, superando quindi il concetto di proporzionalità fissato dai nostri padri costituenti. Se si volessero confrontare i dati si noterebbe che nel 1963, nonostante il numero di parlamentari fissato, il rapporto precedentemente indicato dai padri costituenti venne rispettato. Secondo l’Istat, la popolazione italiana nel 1963 ammontava a 51,06 milioni di abitanti. Facendo un rapido calcolo, si deduce che ci fosse un deputato ogni 81 mila abitanti e un senatore ogni 160 mila abitanti (circa). Oggi queste proporzioni non sono più rispettate perché la popolazione è salita di quasi dieci milioni di unità. Dunque, seguendo il criterio dei padri costituenti, si dovrebbe aumentare il numero dei parlamentari, e non diminuirlo. Certo, i tempi sono cambiati ma si dovrebbe andare avanti, anziché indietro e trovare una soluzione comune che possa soddisfare, per quanto possibile, le esigenze di ognuno. La rappresentanza è importante, soprattutto perché i nostri nonni hanno conquistato la libertà combattendo contro una delle più sanguinose dittature della storia.
Il costo del Parlamento
Anche la spesa per il Parlamento, proprio come la questione precedente, è stata materia di analisi per i nostri padri costituenti. La nota sopra citata dice anche che l’eccessiva spesa per “l’elevato” numero di componenti delle due Camere poteva essere compensata dall’efficienza del Parlamento stessa nel concepire leggi serie e oneste.
Sappiamo tutti che non è così. Si pensi ai numerosi scandali passati, come Tangentopoli. La politica è fatta di persone che prendono decisioni, molto spesso sbagliate. Nessuno penserebbe mai di rinunciare agli innumerevoli privilegi che derivano dallo status di parlamentare ed è per questo che il referendum ha avuto certamente un nobile fine. Ridurre i costi a parità di produttività non è mai sbagliato.
Eppure “Manomettere la Costituzione per una cosa davvero poco rilevante, specie in un momento in cui il Paese avrebbe bisogno di riforme importanti per ripartire, costituisce un precedente molto rischioso”. Così l’economista Carlo Cottarelli dice a Repubblica. “Il risparmio, in questo caso ammonta a circa 57 milioni l’anno”, ovvero, “ lo 0,007 per cento della nostra spesa pubblica. Pari a un euro all’anno per ciascun italiano: il prezzo di un caffè. Non si stravolge la Costituzione per un beneficio tanto irrisorio: farlo non è solo pericoloso, è stupido”.
Qualcosa bisognava fare, ma non in questo modo. Piuttosto, sarebbe stato auspicabile un risparmio in termini di spesa, in modo che si potessero davvero abbattere i costi della politica.
Confronto europeo
In ultimo è certamente doveroso analizzare e confrontare l’allineamento della riforma con gli altri paesi europei. Tra le ragioni del sì spicca la possibilità di avvicinare l’Italia ai diversi numeri dei parlamenti statali dell’Unione. Ma siamo sicuri che questa considerazione sia corretta?
Secondo il Sole24Ore il nostro paese rientra al secondo posto nella classifica dei parlamenti più numerosi in Europa. Infatti l’Italia è seconda solo al Regno Unito, il quale, però, conta ben 792 membri non eletti su 1442 totali. L’articolo continua dicendo che “La riforma con il taglio dei parlamentari, se andrà in porto, è destinata a rivoluzionare la classifica. Camera e Senato scenderebbero a 600 seggi, numero superato, oltre che dal Regno Unito, anche da Francia, Germania, Spagna e dalla Polonia”.
Le preoccupazioni di molti non sono però da ricercare nel numero formale, bensì, ancora una volta, nel problema della rappresentanza. È normale, ad esempio, che Malta o Cipro abbiamo rispettivamente 68 e 56 parlamentari. Paesi come questi presentano popolazioni nettamente minori rispetto a quella italiana. Tuttavia il rapporto parlamentari/popolazione cambia.
Una nota del Senato della Repubblica italiana ci fa notare come l’Italia dal secondo posto balzerà velocemente a fine classifica (ventiduesima posizione) con il calcolo parlamentari/popolazione. Dunque è normale che i numeri cambino in Europa. Uno stato con 60 milioni di abitanti non avrà mai un parlamento equivalente ad uno con 10 milioni. Il criterio di paragone, allora, deve tenere conto della popolazione e non delle sole unità in Parlamento. Vien da sé che l’Italia è in linea con le più grandi potenze europee.
Per concludere, siamo ancora sicuri che sia stata necessaria una riforma così radicale? Si poteva studiare una soluzione alternativa? A voi i commenti.