venerdì, 20 Dicembre 2024

Qui siamo tutti matti. Una prospettiva dal cantautorato

Il Matto nei Tarocchi è un arcano maggiore e può essere o la prima o l’ultima carta del mazzo. Rappresenta una fonte di energia infinita che deve essere espressa in qualcosa di reale altrimenti rimane inutile astrazione. La sua iconografia è varia: può essere giovane o vecchio, vestito in modo semplice e trasandato o colorato e simile ad un giullare, solo o circondato dagli animali. Ogni forma d’arte è piena di matti, più o meno canonici: dal famosissimo Cappellaio Matto di Lewis Carroll per la letteratura, alle varianti di Joker nel cinema nonostante nasca da un fumetto; in generale la sua essenza affascina da molto tempo. In un caso particolare, il suo nome è il titolo di tre canzoni di cantautori italiani: De André, Guccini e Fossati.

Matto – Ivano Fossati

Un singolo all’interno dell’album La casa del serpente del 1977, il quarto in carriera, composto da 8 tracce. Ne fa parte anche la prima collaborazione con Mia Martini, inizio di un lungo sodalizio che si trasformò poi in una storia d’amore.

Matto, è qui in citta’ che sporche cose fa
Tutta la notte a bere e all’alba qualcuno inciampera’
Nel matto che abbraccera’ l’asfalto di citta’

Il testo ha inizio con la parola stessa e quindi con l’immagine del matto: un uomo solo che vaga nella notte, inconsapevole, confuso dall’alcool e da sé stesso, circondato dallo sguardo degli altri ed indifferente a tutto, senza paure. Il ritmo della canzone è abbastanza veloce, ciò si nota in particolare dall’impostazione della voce e delle frasi, allungate ed improvvisamente tagliate da una parola, ponendovi un accento improvviso. Tale ritmo sembra quasi mettere in musica la camminata ondivaga del suo personaggio, mentre si bagna sotto la pioggia.

Nel finale vediamo il matto con l’espressione più canonica che può venire in mente: la risata. Eppure, il matto è “fantasia, paura, malattia / castelli di fortuna e di malinconia”. Nel suo riso si uniscono la bellezza della libertà e dell’immaginazione con il dolore della differenza e della solitudine.

Un matto (Dietro ogni scemo c’è un villaggio) – Fabrizio De André

La canzone è nell’album Non al denaro non all’amore né al cielo del 1971, ispirato all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters; per questo brano De André riprende la poesia-epitaffio Frank Drummer.

Anche il suo matto vive la notte ma la trascorre sognando gli altri. È un personaggio in cui la sofferenza e la malinconia sono palpabili. La sua storia ha inizio dalla derisione, è un uomo che prima di essere “matto” è appunto un uomo, con grandi fragilità ed il bisogno di far parte di una comunità/umanità. La sua fine, la morte, è in manicomio.

E senza sapere a chi dovessi la vita
In un manicomio io l’ho restituita
Qui, sulla collina, dormo malvolentieri
Eppure c’è luce, ormai, nei miei pensieri

C’è una coscienza del mondo più alta che in Fossati, proprio per questo è destinato al dolore, che può essere interrotto solo con la morte. È incapace di accettare la sua natura, è emarginato, circondato da una realtà che gli vieta la serenità in vita, la sua luce è possibile solo altrove, oltre. Altra differenza tra De André e Fossati è la critica sociale, leggera e indiretta in Fossati, che lascia l’amaro in bocca ascoltando Un matto.

Il matto – Francesco Guccini

Mi dicevano il matto perché prendevo la vita
Da giullare, da pazzo, con un’allegria infinita
D’altra parte è assai meglio, dentro questa tragedia
Ridersi addosso, non piangere e voltarla in commedia

Guccini imposta il personaggio in prima persona, si inserisce nei suoi occhi. Ci porta in guerra con un giovane che muore sparato dal nemico, che continua a ridere da solo, anche dopo la fine più cruda. Ancor di più che in Fossati, la risata nel testo e la velocità del brano fanno da padrone, tanto che la leggerezza apparente della canzone di Guccini porta un sorriso macabro e bloccato sul viso di chi lo ascolta; anche la solitudine torna, caratteristica costante nei tre matti.

Con Guccini viene naturale ricordare quanto la follia sia stata un rifugio per chi ha conosciuto la guerra, un nascondiglio salvifico interno alla mente che si trasforma in patologie di varia forma e gravità, un esempio di quanto questo sia accaduto ed accada realmente è nel film-documentario Scemi di guerra di Enrico Verra.

La follia, la musica, la poesia e tutti noi

Un ultimo artista che cinque anni fa ha provato a riprendere questo tema come i tre cantautori, dichiarando anzi di aver prodotto una versione hip-hop del brano di De André, è stato Ernia con Pazzo, nell’album ’68, che prende il nome dalla linea di un autobus di Milano.

Può capitare che in un quartiere
Fuori dal centro di una grande città
Che un pazzo si chieda mentre è respinto
Pensando all’amore, dov’è l’inganno
E che i pensieri si trovin presto intrappolati in tele di ragno

La follia osservata da Ernia porta con sé una sofferenza tenera, nella richiesta insistente di un bacio che non arriverà mai, unita ad una melodia armonica ed allo scoppiettio del ritmo necessario all’hip-hop. Ernia dimostra come l’influenza di certi artisti sia ancora presente, ma soprattutto mette in luce come i loro argomenti siano esistenziali, necessari.

Nel raccontare la pazzia, l’arte ci ricorda come sia una parte di noi, espressione di quel lato irrazionale ma naturale dell’essere umano. Che può essere pericolosa, diventare malessere se prende il controllo, che può essere un segno di problemi più grandi. Infine, soprattutto per l’arte stessa, che può essere sinonimo di allegria, di creatività e di libertà se riusciamo ad avvicinarla serenamente alle altre sfaccettature che abbiamo.

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