L’estrema complessità del conflitto arabo-israelo-palestinese è un ritornello ben noto agli studiosi di politica mediorientale. Il quadro geopolitico è complicato dalla compresenza di una moltitudine di fattori: politici, storici, sociali, demografici, strategici, ambientali. Gli attori in campo sono molti, ognuno ha una storia particolare ed interessi strategici molto specifici e circostanziati, nonché variabili nel tempo. Un elemento d’analisi spesso sottovalutato è sicuramente quello delle risorse idriche: la questione dell’acqua, all’apparenza marginale, ha invece avuto, negli ultimi 70 anni, un’importanza fondamentale nel determinare la storia del contesto.
Rileggere la storia dei rapporti tra Israele, territori palestinesi e stati arabi sotto la lente della lotta per le risorse idriche contribuisce a fornire un quadro più completo e realistico della situazione. Inoltre, permette di comprendere una serie di problemi strettamente contemporanei, legati alla questione della “Grande Sete” palestinese. “La comprensione dei processi in corso nella zona mediorientale non può prescindere dalla valutazione del ruolo riguardante il possesso e il controllo dell’acqua, fattore determinante di sicurezza al pari della struttura militare o delle posizioni strategiche”. Parole di Giovanni Codovini, studioso di Medio Oriente, il cui capitolo “Le risorse strategiche: guerre e diplomazie dell’acqua” all’interno dell’opera “Geopolitica del conflitto arabo israeliano palestinese” rappresenta il quadro teorico-concettuale di questo articolo.
Panoramica delle risorse idriche nella Palestina storica
La zona della Palestina storica è considerata una “water stress zone”, una zona idrica critica, con un deficit annuo pari a 3000 milioni di metri cubi di acqua. Sono tre i principali bacini di raccolta di acqua a cui Israele può fare riferimento per provvedere al suo fabbisogno: il bacino del Giordano presso il Lago di Tiberiade (nel nord del paese, detto anche Mare di Galilea), l’acquifero costiero (150 km sotto la piana costiera del Mediterraneo, fino a Gaza) e l’acquifero di Yarkon-Tanninim (presso Hadera, sulla costa nel nord-ovest vicino ad Haifa).
Il National Water Carrier si premura di organizzare i prelievi acquiferi e di indirizzarli alle stazioni di pompaggio, in particolare alla grande pompa di Tiberiade, da cui, passando per Tel Aviv, partono i tre acquedotti principali del paese. Un terzo dell’acqua israeliana viene comunque dalla Cisgiordania, ovvero dai territori palestinesi, il cui sfruttamento idrico sta di fatto interamente nelle mani di Israele. Negli ultimi vent’anni si contano oltre 50 nuovi pozzi israeliani costruiti nella West Bank, con i palestinesi che accusano Israele di overpumping e di “strategia della sete” per indebolire la controparte. L’attrito israelo-palestinese sulla questione idrica è dunque una questione specifica, riguardante lo sfruttamento delle acque cisgiordane e le pessime redistribuzioni israeliane: ne riparleremo più avanti.
La centralità del Giordano nei rapporti arabo-israelo-palestinesi
In una cornice più ampia, che consideri le dinamiche regionali e dunque il carattere “arabo-israeliano” del conflitto, il punto di attrito principale è senza dubbio il fiume Giordano. Lungo 300 km, nasce dal monte Hermon. La sua sorgente è formata dal confluire di tre fiumi: l’Hasbani, detto anche Snir, che nasce il Libano a circa 40 km dal confine con Israele; il Dan, interamente in territorio israeliano; e infine il Baniyas, anch’esso israeliano, vicino al confine con la Siria. Il suo affluente principale è lo Yarmuk, che si unisce al Giordano poco a sud del Mare di Galilea ma che nasce in Siria e il cui corso, per 40 km, delimita il confine siro-giordano.
Termina la sua corsa nel Mar Morto, e man mano che fluisce verso sud acquista in salinità, rendendo così la parte settentrionale quella migliore da cui drenare le acque. In definitiva, il 53% dell’area drenabile è in mano alla Giordania, il 30% alla Siria, il 10% ad Israele e una piccola rimanente parte al Libano. La situazione de facto però, a seguito del Johnston Plan (1956) e dell’accordo israelo-giordano (1994) vede Israele detenere il 30% abbondante delle riserve del bacino del Giordano, con annessa responsabilità di redistribuzione.
Disuguaglianze di potere
Balza subito all’occhio la criticità della ripartizione, su più livelli. Il contesto storico-geografico è variabile e negli anni si è modificato molto. Le sorgenti e gli affluenti del Giordano, da cui dipende molto della sua potenza idrica, sono situati in varie zone sotto il controllo di una moltitudine di attori diversi, e lo stesso vale per il medesimo corso del fiume. Questo dà vita a una serie di dinamiche di potere legate all’acqua che, storicamente, sono divenute preponderanti.
Lo Stato d’Israele considera, e piuttosto a ragione, la questione degli approvvigionamenti idrici una questione strettamente di sicurezza nazionale. Innanzitutto per via della sua posizione di down-streamer, i.e. non controlla l’origine del corso d’acqua. Chi è più a nord, considerando che il corso del fiume va verso sud, dispone di un vantaggio strategico non indifferente. Può bloccare, deviare, modificare il corso del Giordano, delle sue sorgenti o dei suoi affluenti in ogni momento. Israele è tuttavia un down-streamer relativo, perché controlla buona parte di queste sorgenti e, storicamente, ha ben pensato di guadagnarsi manu militari il controllo di tutta una serie di punti nevralgici del contesto idrico della zona. Inoltre, fa da up-streamer de facto in relazione ai Territori palestinesi, che non dispongono del benché minimo controllo di questi snodi.
Un caso paradigmatico: il conflitto del 1967
La guerra del 1967 (cosiddetta Guerra dei Sei Giorni), per esempio, può a tutti gli effetti considerarsi una “guerra dell’acqua”. Dopo il fallimento del Piano Johnston (che pur continuò a mantenere un efficacia informale) per via della guerra del canale di Suez (1956), Israele e Paesi arabi (Siria e Giordania in testa) optarono per una gestione unilaterale della questione idrica, progettando una serie di piani non-concertati sullo sfruttamento delle risorse. Uno di questi progetti, portato avanti dalla Lega Araba tra il 1960 e il 1967, prevedeva la deviazione dell’Hasbani, in Libano, con conseguente tentativo di paralizzare l’Alto Giordano.
Dalla guerra del 1967 al Libano
I primi disordini che portarono poi allo scoppio della guerra in sé riguardarono proprio incidenti presso infrastrutture idriche dell’una o dell’altra parte. A seguito della impressionante vittoria, Israele si premurò di assicurarsi le alture del Golan (sorgente del Baniyas) e di creare una “zona di sicurezza” di 40 km oltre il confine libanese, guarda caso appena oltre la sorgente dell’Hasbani. L’occupazione della Cisgiordania, poi, diede vita alla “colonizzazione idrica” lamentata tutt’oggi dai palestinesi della West Bank. Ancora, nel 1982, l’operazione Pace in Galilea con cui Israele invase il Libano in guerra civile diede modo allo stato sionista di assicurarsi il controllo del Litani, grande fiume libanese e fondamentale risorsa acquifera.
Leggere la storia del conflitto arabo-israeliano con la lente della guerra idrica dà modo, è ormai evidente, di cogliere una moltitudine di aspetti sottovalutati ma fondamentali. Israele è obbligato, in un’ottica securitaria, a sopperire in qualche misura alla sua posizione di down-streamer e storicamente l’ha fatto con una certa efficacia. A volte con le armi, approfittando di vittorie militari e circostanze favorevoli (il Golan, l’Hasbani, il bacino cisgiordano). Altre volte, con un’attenta azione diplomatica, come quella che ha portato ai proficui accordi israelo-giordani del 1994. Altre volte ancora, ed è questa una linea sperimentata in anni recenti, ampliando il proprio sguardo e rivolgendosi ad attori esterni alla regione, in particolare Turchia e Pakistan.
La questione idrica cisgiordana
Tornando all’attrito più prettamente israelo-palestinese, già si è detto della posizione subordinata e dipendente dei Territori nei confronti del loro up-streamer de facto. In un’ottica di rapporti deteriorati questa situazione rappresenta ancora oggi una leva di potere e di sfruttamento nei confronti dei cisgiordani. In questo senso, perciò, si parla di “colonizzazione idrica” (vedi la continua costruzione di pozzi) che va di pari passo con la colonizzazione “residenziale” sottoforma di insediamenti che Israele ormai da anni mette in piedi. Secondo dati vecchi di circa 10 anni (ma che oggi tutt’al più risulterebbero ancor più polarizzati), Israele utilizza 1960 milioni di mq di acqua all’anno; i territori palestinesi 286 milioni. Il consumo medio quotidiano israeliano è di 282 litri, in Cisgiordania di 70, a Gaza di 80, negli insediamenti israeliani in Cisgiordania di 600.
Il problema si fa ancora più serio considerando come l’economia palestinese sia completamente dipendente dall’agricoltura. Israele riconosce alla Palestina solamente i diritti sull’acqua precedenti al 1967, cioè 100 mm3 per uso agricolo. Si arriva così all’assurda situazione che segue: i palestinesi di Cisgiordania coltivano il 95% delle superfici adibite a coltura ma possiedono una percentuale di aree irrigate del 37%; Israele, che coltiva il 5% totale, detiene il 63% delle aree irrigate. Il problema è gigantesco e non può essere minimizzato, soprattutto a fronte dell’atteso incremento demografico.
In definitiva, il futuro della questione idrica rappresenta un fattore decisivo se si auspica un miglioramento dell’attrito arabo-israelo-palestinese. A livello dei rapporti tra stati arabi e Israele, la regolamentazione concertata delle risorse idriche, dei bacini acquiferi e del corso di Giordano ed affluenti pare uno snodo negoziale imprescindibile. A livello dei rapporti israelo-palestinesi, nell’ottica dell’effettiva sostenibilità futura di uno stato palestinese, sembra altrettanto fondamentale una riorganizzazione, stavolta coordinata, dei rapporto idrici cisgiordani.