lunedì, 18 Novembre 2024

La questione femminile nell’Afghanistan talebano: a che punto siamo?

Il 15 agosto 2021 l’esercito talebano vinceva le ultime resistenze del governo afghano e prendeva Kabul con le armi dopo aver conquistato l’intera nazione in meno di un mese. Il 30 agosto, l’ultimo aereo americano lasciava l’aeroporto di Kabul: si concludeva così la più lunga esperienza di guerra all’estero della storia degli Stati Uniti d’America. Ieri, 15 gennaio 2022, sono passati esattamente sei mesi dal ritorno del governo talebano in Afghanistan. Il racconto degli avvenimenti non sembra più essere al centro del dibattito pubblico, o almeno di quello occidentale. Niente di eccezionalmente preoccupante: il ciclo delle notizie ha delle regole severe e piuttosto note.

Qualche mese fa, il dibattito si focalizzava soprattutto sui tentativi di prevedere gli sviluppi dell’Afghanistan talebano. Sarebbe stato un governo “nuovo”, diverso? Sarebbe stata una mera, terrificante fotocopia dell’esperienza governativa 1996-2001? L’unica risposta realistica, già allora, pareva essere una sola: né una né l’altra. Infatti, a cinque mesi dalla presa di Kabul, il nuovo governo afghano dimostra di mantenere piuttosto intatto l’impianto ideologico della sua “prima volta”, ma al contempo di avere molte più cautele nell’implementazione dell’impianto stesso.

La questione femminile nell’Afghanistan

Questo discorso riguarda, in particolare, la questione femminile. La condizione delle donne afghane è uno dei pochi “contenitori di notizie” che riesce ancora oggi a trovare uno spazio sui media. L’altro, anche se in misura minore, è la situazione umanitaria del paese, che fa temere per la vita di milioni di persone. Perché? Perché parlare del problema delle donne afghane è un modo per parlare anche di noi. La società afghana, a oggi, affronta dei problemi con cui, paradossalmente, risulta difficile solidarizzare appieno. Se non altro perché non li viviamo e non li conosciamo.

La questione femminile è un dibattito caldo in tutto l’occidente e attrae molto di più l’attenzione dell’opinione pubblica. Tuttavia, si rischia di incorrere nell’applicazione dei “nostri” criteri sulla discriminazione di genere a un contesto molto differente. O meglio, di applicare solo quelli. Un’analisi efficace deve tener conto di moltissimi fattori: la situazione storica, politica, sociale, economica e religiosa dell’Afghanistan. Ciò può portare a una migliore consapevolezza del fenomeno e a poterlo comprendere meglio nella sua assoluta drammaticità.

Le difficoltà dell’Afghanistan

Le performances del nuovo governo afghano si stanno posizionando ben al di sotto delle già bassissime aspettative. I talebani non stanno riuscendo a garantire quella “sicurezza diffusa” di cui si sono sempre fatti alfieri. Di fatto, entrambe le loro esperienze governative si sono basate su un tacito, per quanto forzoso, do ut des: rigorismo estremo in cambio di sicurezza. Eppure, oggi, non esiste traccia di sicurezza alimentare: si rischia la più grande crisi-carestia del secolo. Non esiste traccia di sicurezza economica: il PIL dell’Afghanistan dipendeva dai finanziamenti esteri per il 40% del suo valore, e questi finanziamenti sono bloccati da cinque mesi.

Anche la sicurezza militare è messa a rischio: gli attacchi terroristici dell’ISIS-K sono all’ordine del giorno e, nella provincia di Nangarhar, è in corso una guerra sotterranea estremamente violenta. Nelle situazioni di crisi diffusa, la storia insegna che più si scende lungo la piramide sociale, più si alza il livello di sofferenza della persona. E sono proprio le donne afghane delle province e delle città a rappresentare il gradino più basso della piramide. Innanzitutto perché hanno perso la propria indipendenza economica a seguito del cambio di regime. Poi, perché hanno visto concretizzarsi la degradazione dei propri diritti e sono state marginalizzate socialmente.

Le difficoltà dell’Occidente

Pur spesso destinatarie degli aiuti internazionali, le donne non ne sono destinatarie “di prima istanza” e il godimento dei benefici derivanti dipende da come (e se) gli aiuti riescono a scendere i gradini istituzionali, dai vertici del potere fino a loro. Non sembra essere di aiuto in questo caso il destinare i finanziamenti alle ONG operanti in loco, perché la pervasività del controllo talebano può bloccare questo “intervento in medias res” e ricollocare verticalmente la catena dei benefici. È una questione estremamente complicata, con gravi ripercussioni sulla politica umanitaria dei paesi occidentali. Come aiutare le donne afghane, nel concreto, stando fuori dall’Afghanistan? Nessuna modalità sembra essere davvero efficace.

Bloccare i finanziamenti esteri, condizionando il loro reintegro a delle concessioni di diritti nei confronti delle donne da parte del governo, è una mossa ambivalente. Innanzitutto perché il blocco delle transizioni di denaro ha conseguenze più per la base che per i vertici. Il caso storico delle sanzioni all’Iraq di Saddam Hussein lo dimostra fuor di ogni dubbio: a soffrire non erano certo i centri del potere. In secondo luogo perché ciò dà la possibilità al governo in carica di scaricare le colpe del disastro economico su cause esterne, alimentando una narrativa antioccidentale.

In terzo luogo perché, se i talebani decidessero di venire incontro all’Occidente per trarne dei vantaggi economici, potrebbero disporre di molti specchietti per le allodole. Fin dai primi momenti a seguito della presa del potere i talebani hanno provato a presentarsi come un interlocutore affidabile, contraddicendosi poi nella pratica. Lo sblocco dei finanziamenti rischierebbe così di attuarsi in cambio di cambiamenti formali, ma senza alcuna sostanza alle spalle.

La questione dei diritti negati

A fine dicembre, i talebani hanno introdotto una norma che vieta alle donne di percorrere da sole una distanza in auto superiore ai 72 chilometri senza un accompagnatore maschio. Si tratta di un ennesimo passo verso la reintroduzione completa della figura del maharram, l’accompagnatore uomo. Nel periodo 1996-2001 alle donne era persino vietato di uscire di casa senza un maharram, fosse pure un bambino. Celeberrima era diventata la storia di Shakriya Barakzai, colpita a frustate di ritorno da un ospedale in cui si era recata da sola, non avendo “a disposizione” un parente uomo con cui uscire. Barakzai sarebbe poi diventata prima attivista dissidente, in seguito diplomatica e politica afghana dopo la cacciata dei talebani nel 2001. Oggi, ai tassisti è vietato accogliere nella vettura donne sprovviste di velo, sebbene non sia chiaro se si parli del semplice hijab, oppure del niqab.

A fine anni ’90, alle donne era imposto il velo integrale: le foto (clandestine) di queste figure tragiche, senza volto e spesso accompagnate da bambini, erano divenute simbolo della terrificante tirannia talebana. Delicatissima è poi la questione dello studio universitario femminile. Un portavoce governativo mesi fa aveva garantito che le donne avrebbero potuto continuare a seguire i corsi. Nei fatti, però, questi non sono ancora ricominciati nell’attesa di poterli riprendere con una separazione rigida fra maschi e femmine. Alle donne al momento è, inoltre, proibito l’accesso all’istruzione secondaria, condizione imprescindibile per accedere poi all’insegnamento universitario. Andando nel senso opposto, per ragioni forse più di opportunismo politico, nuove leggi hanno vietato il matrimonio forzato e hanno regolato i diritti di proprietà delle vedove.

La rilevanza della questione femminile

Le donne non sono le uniche vittime del disastro economico-sociale del nuovo regime talebano. Tuttavia la compressione dei loro diritti lungo tutta una serie di ramificazioni ne fa senza dubbio uno dei principali, se non il principale, gruppo sociale target della crisi umanitaria in corso. L’attenzione dedicata alla questione femminile afghana è dunque in primo luogo giustificata dalla situazione on the ground. Poi, entrano sicuramente in gioco dinamiche culturali. Come occidentali, la tutela dei diritti femminili in Afghanistan ci colpisce molto perché mette anche noi, nel nostro piccolo, al banco degli imputati.

La discussione a tal proposito rischia facilmente di degradarsi in futili dibattiti dai toni benaltristici, dall’uno o dall’altro punto di vista. Rischia di portare alla sottovalutazione delle nostre problematiche di genere, sicuramente di minore magnitudo ma che appunto, essendo “nostre”, hanno peculiarità tutte loro. Rischia, dall’altro lato, di portare alla sottovalutazione della questione afghana, come se fosse “uno dei tanti problemi, e non tra i più gravi” dell’Afghanistan di oggi. Questo non sembra essere un approccio utile all’analisi. La rilevanza, come abbiamo visto, è giustificata in senso politico-sociale, ma lo è anche in senso culturale.

Le ragioni culturali

La discriminazione sistematica dei talebani verso metà della propria popolazione, quella femminile, è puramente di ragione culturale. È il derivato di un’impostazione storica dannosa che distende la propria ombra fino al presente. Si badi: l’impostazione storica dannosa non è quella islamica tout court, anzi. Esistono biblioteche intere dedicate alla questione femminile nell’Islam che dimostrano come il ruolo della donna musulmana sia completamente diverso da quello che noi, con il nostro limitato punto di vista west-centrico, riusciamo a cogliere. Piuttosto, il riferimento è all’impostazione del Riformismo islamico, inteso come quel gruppo eterogeneo che presenta sé stesso in opposizione all’ortodossia sunnita, ma che spesso vengono erroneamente ricondotti al “calderone sunnita”. Di esso fanno parte tutti i vari movimenti salafiti, i wahhabiti sauditi, i talebani stessi, l’ISIS.

Questi gruppi propongono una visione rigida e legalistica dell’Islam, fondano la propria ideologia sul periodo storico dei salaf, i pii antenati, e sognano un modello di governo islamico fortemente incentrato sull’applicazione della legge divina (sharia), concretizzata nel diritto contingente (fiqh). Tra le conseguenze di questo approccio, vi è anche l’atteggiamento di prevaricazione nei confronti della controparte femminile. Questa è dunque la seconda ragione per cui il discorso sulle donne afghane debba rimanere centrale nel dibattito pubblico. L’Afghanistan è solo l’esempio più comodo per descrivere le derive drammatiche di un certo tipo di discriminazione sistematica su basi religiose-estremiste. Non è l’unico, non è il primo e nemmeno sarà l’ultimo. Potrà però essere, se accompagnato da un’analisi solida che tenga conto delle peculiarità case by case, un tragico monito di queste situazioni sempre più comuni nel mondo.

Matteo Suardi
Matteo Suardi
Matteo Suardi, oltrepadano di nascita e di spirito, classe 1997. Studio Scienze internazionali all'Università di Torino, profilo Middle East and North Africa. Fiero appassionato di Medio Oriente, multilateralismo e studio delle religioni, scrivo per Sistema Critico nella sezione Politica. Die hard fan dell'ONU, unica cosa al mondo che mi emoziona più di Roger Federer.

Latest articles

Consent Management Platform by Real Cookie Banner