Il 19 Luglio di ventisette anni fa era una domenica pomeriggio.
Un giorno come tanti altri. Una domenica in cui, mentre una madre aspettava suo figlio, un’auto-bomba esplodeva in via D’Amelio a Palermo portandosi via con sé il giudice Paolo Borsellino e quasi tutta la sua scorta.
E’ doveroso ricordare anche i loro nomi: Agostino Catalano, Water Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina.
In soli tre mesi
Quel tardo pomeriggio di metà Luglio, un’edizione straordinaria del Tg5 condotta da un giovane Enrico Mentana, irrompeva interrompendo i programmi in onda.
“Ancora notizie tragiche e drammatiche ci giungono da Palermo. Come si temeva, e come la mafia aveva sentenziato, obiettivo di un nuovo attentato sarebbe stato il giudice Paolo Borsellino. […] Borsellino sarebbe rimasto ferito in un attentato devastante che avrebbe fatto anche diverse vittime”.
Una flebile speranza.
La trasmissione andava avanti e nuovi aggiornamenti giungevano da Palermo. C’erano dei feriti, forse dei morti. Ma il giudice? Si cercava una risposta tra le parole di Salvo Sottile, inviato speciale nel capoluogo siciliano, le quali erano coperte dalle sirene dell’antifurto delle macchine che ancora suonava dopo l’esplosione. “E’ arrivata la conferma, il cadavere che c’è davanti alla portineria è proprio quello di Paolo Borsellino”.
L’espressione sul volto di Mentana era eloquente. Con gli occhi che si abbassavano e la testa che comincia a scuotersi, il direttore trasmetteva un dispiacere che ben rappresentava quello che tutti temevano.
Anche Borsellino era stato eliminato.
Neanche tre mesi dopo Capaci e la morte di Giovanni Falcone, la mafia aveva colpito ancora. Ancora con le bombe, ancora contro un magistrato della cosiddetta “super procura”.
Lotta solitaria
Non è né cospirazionismo né esaltazione dell’irreale affermare che tra i vari ostacoli nella lotta a Cosa Nostra c’era anche lo stesso Stato italiano e, in alcuni casi, l’opinione pubblica.
i talk-show e gli articoli di giornale
Si potrebbe cominciare rievocando a uno a uno i vergognosi dubbi e insulti diffusi in Tv o a mezzo stampa da chi – giornalista o pseudo-opinionista – non perdeva tempo per diffamare i due magistrati. Le accuse, addotte con l’ingiustificata saccènza di chi non aveva mai ricevuto neanche una minaccia di morte di matrice mafiosa, spaziavano dal sospettare che Falcone sfruttasse il proprio ruolo per future aspirazioni in politica (alcune puntate del Maurizio Costanzo Show ne sono da esempio), all’affermare più genericamente che lui e Borsellino esagerassero troppo il fenomeno mafioso.
Ah, come no.
lo Stato
Questo, in ogni caso, non era lo Stato. Esso, o almeno la sua parte marcia, agiva diversamente.
Ne è un esempio il conto per vitto e alloggio che fu presentato ai due giudici dopo aver soggiornato al carcere dell’Asinara in Sardegna come se la loro fosse stata una vacanza e non un trasferimento forzato (in totale segretezza di notte, sotto scorta e con mezzi blindati) per scampare alla furia omicida del capo dei corleonesi Totò Riina. Ma c’era di più: quella tappa vedeva i due magistrati preparare le conclusioni di quello che sarebbe stato il Maxiprocesso, un procedimento giudiziario senza precedenti che si concluse con la condanna dei boss e dei loro affiliati per un totale di 19 ergastoli e 2.665 anni di pena.
La preparazione di un processo del genere, sarebbe da addurre ad aggravante di chi quel giorno gli commissionò il conto.
E allora come non parlare anche delle ripetute segnalazioni – tutte andate a vuoto – per fare in modo che via d’Amelio fosse sempre libera e mai con macchine parcheggiate ai lati perché troppo stretta e troppo pericolosa per il giudice che, spesso, si recava lì per fare visita alla madre.
La mai reale presa in considerazione di queste segnalazioni ha, tra vari fattori, permesso ad una Fiat 196 piena di tritolo del tipo semtex-H, di passare indisturbata agli occhi della scorta di Borsellino quel 19 Luglio 1992.
E’ così quindi che il senso di abbandono da parte di uno Stato che non solo non sembrava collaborativo ma anzi colluso, traspariva con sempre maggior frequenza nelle parole dei due magistrati, dichiarazione dopo dichiarazione.
“Essere libero di essere ucciso la sera”
E’ la frase straziante che Borsellino pronuncia davanti alla commissione parlamentare antimafia nel Maggio del 1984 e che solo negli ultimi giorni è stata desecretata assieme all’intera audizione.
Quel giorno, il giudice dice anche molte cose interessanti che forse rendono il senso di quello che doveva essere il senso di ostacolo quotidiano che si viveva tra le fila del pool antimafia.
Durante il suo discorso, Borsellino affronta vari punti critici della sua attività quotidiana e lo fa partendo dalla mancanza di un computer funzionante.
Beninteso, si tratta ancora degli anni ’80 e non del 2000: reperire un computer allora non era certo come oggi ed ecco allora che anche uno strumento che oggi considereremmo quasi banale, nel 1984 poteva essere il fulcro di una richiesta dinnanzi ad una commissione parlamentare.
la trascrizione:
“Un solo processo è composto di centinaia di volumi” dice Borsellino nella registrazione “che ci riempie intere stanze. Abbiamo un computer che però potremo utilizzare solo fra qualche tempo: sembra che i problemi di installazione siano particolarmente gravi e non capisco perché. Il computer è diventato indispensabile per la mole di dati che dobbiamo gestire per il grande processo che stiamo preparando (il Maxiprocesso, ndr) e non solo: ci sono enormi carenze con segretari e dattilografi che non fanno straordinario nonostante per questo processo noi siamo costretti a lavorare 16-18 ore al giorno e per la maggior parte del tempo ci ritroviamo soli con tutto l’aggravio. Abbiamo bisogno di averli a disposizione tutto il giorno”.
Ed è qui che Borsellino introduce un’altra, enorme, criticità: “ma questo non riguarda solo segretari e dattilografi: mi riferisco anche agli autisti. La mattina veniamo accompagnati con strombazzamenti sull’auto blindata la quale però è una e non è disponibile al pomeriggio. Sono quindi costretto a tornare al lavoro direttamente con la mia auto. Riacquisto la mia libertà certo, ma non vedo che senso abbia essere privato della mia libertà al mattino per essere libero di essere ucciso la sera”.
Un peso sulla coscienza
Con Capaci prima e Via D’Amelio poi, ogni anno ricordiamo a distanza di pochi mesi la scomparsa di due uomini che hanno dato la vita per il proprio Paese nonostante un vuoto attorno per cui qualche mea culpa potrebbe non bastare mai.
E’ così che rimane un enorme peso sulla coscienza pensando a come sarebbero potute andare le cose se ci fossero stati, tra le altre cose, segretari a completa disposizione, computer funzionanti, auto blindate in più e qualche bordata gratuita in meno.
C’è una frase triste che forse più di tutte dà il senso di sbigottimento che si prova davanti a critiche e illazioni nonostante si stia rischiando niente meno che la propria vita per il bene di tutti:
“In Italia per essere credibili bisogna essere ammazzati?”
E’ la contro-domanda che pone lo stesso Falcone a una ragazza che, in un programma televisivo, gli chiede come mai se lui afferma che chi combatte la mafia muore, lui sia, per fortuna (almeno questo ha la decenza di aggiungerlo), ancora vivo.
Quella di Falcone è una domanda da porsi e riporsi e su cui meditare provando magari a darsi anche una risposta. Per quanto amara sia.