La forza e l’inquietudine di uno scrittore, tanto mitizzato quanto condannato, si auto-alimentano con perseveranza funesta da quel fatidico 2 novembre 1975. Pier Paolo Pasolini, lo scandalo e la blasfemia, torna ciclicamente sulla terra a combattere, da lontano, contro la società che aveva smascherato tempo addietro. Oggi, 5 marzo 2021, i 99 anni riecheggiano tra le pagine dei suoi capolavori, in una dialettica eterna di controversia e verità.
Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile.
Come finirà tutto ciò? Lo ignoro.
Porcile e gli ossimori del capitalismo
Indagare ogni linguaggio di cui il poeta si è servito sarebbe impresa ardua, mi limiterò quindi a ricordare – seppur in brevissima analisi – con quali occhi Pasolini cercava arduamente di scrutare la realtà e con quali parole interrogava le nostre coscienze.
Scritto e diretto dal regista durante il maggior fermento politico del Sessantotto, Porcile nasce dall’acuta esigenza di indagare l’uomo moderno in tutte le sue sfumature: l’uomo cannibale divorato dal capitalismo e vittima della sua stessa natura. L’estetica delle inquadrature accompagna lo spettatore in un viaggio atemporale e allo stesso tempo universale; Pasolini, con neutralità e veemenza, costruisce l’ossimoro di quello che, secondo lui, la società concretizza, in tutte le sue contraddizioni.
Le tragedie del ’66
Io ho odiato per tutta la mia vita il teatro perché sono vissuto in Italia e il teatro italiano non è bello per tante ragioni che forse sarebbero lunghe da elencare. Quindi non ho mai amato il teatro, anzi, il mio nuovo amore per il teatro è diventato una specie di odio.
Dichiara il cineasta in un’intervista. Nel marzo del 1966 lo scrittore è a cena in un ristorante romano con i suoi amici Alberto Moravia e Dacia Maraini quando, all’improvviso, sulla tavola il sangue. Quel sangue, causato da un’ulcera, fece avvicinare Pasolini alla forma d’arte che aveva allontanato da sempre, sin a quel momento.
In un mese ho buttato giù le prime stesure dei primi, ma da allora, cioè da due anni fa a oggi, a varie riprese ho scritto: Orgia, che era la prima, Pilade, Affabulazione, Calderón, Bestia da stile, eccetera.
Nacquero così le tragedie del ’66 (di cui Porcile ne è parte integrante): costruite sull’esempio greco e composte per intenditori del cosiddetto «teatro di parola», uno scenario che mette a nudo i suoi personaggi in tutte le loro fragilità e dinnanzi alla realtà sterile dell’umiltà e della parola, appunto.
Il palcoscenico del Porcile
La tragedia Porcile, composta tra il 1967 e il 1972, è pubblicata postuma nell’edizione Garzanti nel 1979 assieme ad Orgia e Bestia da stile. Il dramma teatrale è articolato in undici episodi ambientanti nella Germania post-nazista. Il protagonista – come l’omonimo film – è Julian, un giovane tedesco figlio di un imprenditore industriale. In quanto figlio e prodotto del neocapitalismo, il ragazzo vive all’insegna dell’antinomia, intesa nel legame inscindibile tra conformismo e ribellione. Julian, non trovando un equilibrio materiale nella sua condizione di totale suddito di se stesso e della realtà in cui è calato, sublima la sua precarietà in una perversione che lo lega inesorabilmente alla terra e alla natura: la meta delle sue lunghissime passeggiate è il porcile, luogo di perdizione e di morte. Il protagonista pratica abitualmente rapporti sessuali con i maiali, gli unici da cui Julian riesce a trarre piacere.
Dal teatro al cinema
Il film del 1969 si dirama in due parti che si congiungono e si allontanano sullo sfondo della denuncia al potere. Il primo episodio, quello di Julian (Jean-Pierre Léaud), è intervallato dalla storia di un giovane cannibale (Pierre Clémenti) che vaga immerso in un paesaggio nudo e arido, specchio della sua interiorità ed esteriorità. Quest’ultimo, dopo aver radunato un discreto numero di suoi simili, sarà condannato a morte per le numerose carneficine e divorato da cani randagi. Allo stesso modo Julian, giunto in uno stato di indifferenza spaventosa nei confronti della sua vita, sarà ucciso e divorato dalla sua stessa via di fuga: i maiali.
I due protagonisti attraverso atti di rivolta estrema (il cannibalismo e l’aberrante zoofilia) si ribellano ad un sistema che li annienta e che li riduce a puro e mero tassello sterile. La forte spinta all’evasione però è causa della loro stessa fine. Il dinamismo del “mangiare” e dell’”essere mangiato” esorcizza a più riprese il pensiero di un conformismo di cui l’uomo moderno è sia vittima che carnefice: la Germania nazista e le ribellioni giovanili dipingono lo scenario di una smodata e insaziabile caccia alla mercificazione e al capitalismo borghese.
Il martirio di un nichilista
Porcile è forse, in ultima analisi, il film in cui Pasolini lascia maggiormente spazio al suo completo e disincantato nichilismo. Julian, ma all tempo stesso Pasolini medesimo, è il martire di una realtà invasa dal perbenismo e dalla futile apparenza. Trasgredire alla società borghese – e in prima battuta ai padri – è impossibile: i diversi e i contrari non fanno la storia, ma la subiscono e ne subiscono le atroci conseguenze.
Oggi, a 99 anni dalla sua nascita, celebriamo lo scrittore che ha trasformato la ribellione in parola e poesia e che, con amarezza indolente, ha fotografato e anticipato il nostro porcile sulla terra.