“Ministro, le è mai venuto il dubbio che quando si interviene sulle pensioni occorra guardare lontano, in particolare ai giovani che subiranno l’onere delle decisioni oggi prese?”. Era il 30 Gennaio 2019, Matteo Salvini era ancora al governo e la Prof.ssa Elsa Fornero gli rivolse questa semplice domanda. L’ex ministro spiegò come, secondo lui, su un campione di 500 mila lavoratori in pensioni sarebbero stati assunti altrettanti giovani. Il tempo ha smentito tale affermazione.
Si legge nel bollettino della Banca D’Italia di gennaio 2020 che «le maggiori fuoriuscite dal mercato del lavoro connesse con le nuove forme di pensionamento anticipato (Quota 100) verrebbero solo parzialmente compensate da assunzioni» riferendosi al biennio 2020-22. Questo significa che il rapporto uno ad uno annunciato da Matteo Salvini non c’è stato. Questa, però, è solo la punta di un iceberg nato quasi 50 anni fa che se non controllato graverà sempre di più sulle spalle dei giovani italiani.
Gli anni spreconi
È il sito dell’Inps ha spiegare la storia delle pensioni in Italia, sottolineando come tra il 1968 e il 1972 «il sistema retributivo sostituisce quello contributivo nel calcolo delle pensioni». Ciò significa, semplificando, che l’importo della pensione annua doveva essere calcolato sulla base della media dei redditi da lavoro degli ultimi anni di carriera. Dunque viene fuori un criterio generoso viste in generale l’andamento crescente delle retribuzioni negli anni.
Una seconda onerosa manovra, di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze, è quella delle baby pensioni. Come spiega il Sole24Ore questa misura è stata «introdotta nel 1973 dal Governo guidato dal democristiano Mariano Rumor e ha resistito quasi vent’anni». Essa prevedeva la possibilità di andare in pensione con quattordici anni, sei mesi e un giorno di contributi per le donne con figli e diciannove anni, sei mesi e un giorno di contributi per gli uomini.
Continuando l’articolo, Alessandro Rosina, ordinario di Demografia all’università Cattolica di Milano commenta «Le baby pensioni sono forse l’esempio più eclatante di un Paese che, dopo l’intensa crescita e mobilità sociale nei trent’anni gloriosi del dopoguerra, ha perso la propria visione di un futuro solido e condiviso da costruire».
È proprio il Sole24Ore che in un altro suo articolo dell’ottobre 2018 spiega come «La quarta fase(proprio tra il 1974 e il 1994) di boom del debito è quella di cui stiamo ancora pagando le conseguenze».
Come vediamo dalla Figura 1 a partire dal secondo dopoguerra, dopo una leggera decrescita del debito, la curva cresce nettamente fino al 1994. Dunque, come diceva Rosina, abbagliati dalla forte crescita economica, i governi italiani di quegli anni misero in atto politiche spendaccione facendo crescere a livelli mai visti il nostro debito pubblico. Tutto questo è sicuramente dovuto a fenomeni economici e sociali estranei alla spesa per pensioni ma come attesta un rapporto del MEF del 2009, in cui si analizza la crescita della spesa pubblica dall’unità d’Italia, «si osserva come in Italia la spesa per la protezione sociale in rapporto al Pil è più elevata rispetto alla media degli altri paesi europei ed è caratterizzata da una componente più elevata relativa ai trattamenti pensionistici».
Il problema del debito
Dunque parlando di pensioni non possiamo tralasciare il problema del debito. Un articolo dell’OCPI dell’università Cattolica di Milano spiega come questo sia una questione molto seria. «In una delle sue tante brillanti intuizioni, John Maynard Keynes spiegò che la crisi si manifesta nel momento in cui il contribuente non accetta più di pagare tasse extra per soddisfare le richieste del “rentier”, ossia per far fronte all’accresciuta spesa per interessi». Così continua l’OCPI spiegando come, in questi casi, gli investitori non saranno più disposti a finanziare lo stato specie in situazioni di debito pubblico elevato. In effetti se non si è certi di poter ripagare il debito per interessi attraverso l’aumento delle tasse o la diminuzione delle spese, perché nessun politico sarebbe disposto a farlo, è complicato sperare che qualcuno possa fidarsi di noi.
Perciò non ci sono dubbi, l’Italia è in grave pericolo(come già molti esperti dicono da tempo). Se non riusciremo a finanziare il nostro debito le possibilità di manovra del governo continueranno ad essere sempre più limitate, gravando sulle spalle dei più giovani. Secondo il Sole24Ore in spesa per interessi il nostro paese spende quasi il 3,6% del Pil, circa 60 miliardi l’anno(due manovre economiche). Dunque è necessario rendere il nostro debito sostenibile ed una delle principali clausole di garanzia è proprio la previdenza. In un paese ai primi posti per spesa previdenziale, secondo l’Fmi e l’Ocse, le prospettive future sono poco rassicuranti visto l’elevato tasso di invecchiamento delle popolazione italiana.
Questione politica
Nessun partito politico vuole diventare il “partito delle tasse” o addirittura essere etichettato come quello che ha ridotto la spesa in Italia. Altrimenti si finisce come la Prof.ssa Fornero derisa ed insultata per avere avuto il coraggio di realizzare una manovra necessaria per evitare il tracollo finanziario.
Il problema delle pensioni è molto più ampio di quanto immaginiamo. Voler riformare il sistema pensionistico nel lungo periodo comporterebbe, oltre ad una onerosa battaglia con sindacati e lavoratori, l’introduzione di regole considerate “ingiuste” ma necessarie per il futuro italiano. Naturalmente è difficile parlare di previdenza in questi termini, gli interessi e i voti in ballo sono troppi.
Eppure le conseguenze le abbiamo già pagate. Prima nel 1992 con una crisi economica, politica e sociale che condusse all’introduzione di misure drastiche quale la riforma pensionistica(vedi l’articolo di Sistema Critico su una patrimoniale europea) e poi con la crisi dei debiti sovrani del 2011 che generò la famigerata Riforma Fornero.
Un rapporto del MEF ci spiega come nel 1992 alcuni degli interventi che hanno contribuito alla riduzione del rapporto fra spesa per pensioni e Pil per far fronte alla difficile situazione economica e finanziaria di quegli anni sono stati: l’adeguamento da un sistema retributivo a uno contributivo, l’innalzamento dei requisiti minimi di accesso(abolizione delle baby pensioni) e l’adattamento dei coefficienti di trasformazioni. Punti trattati anche nella riforma del governo Monti. Se nel 1992 si iniziò a trasformare il sistema pensionistica da retributivo a contributivo nel 2011 si è arrivati, finalmente, alla conversione completa.
Dunque se avessimo continuato ad avere una visione realistica e di lungo periodo come quella della Prof.ssa Fornero oggi potremmo avere margini di miglioramento più elevati. L’adozione di misure che hanno permesso di aggirare la riforma concludendo il proprio percorso lavorativo in anticipo sono state un’ottima mossa politica ma meno economica. In particolare, come ribadisce la Figura 2 estrapolata da una nota del MEF del 2019, l’introduzione di Quota 100 ha spostato le previsioni pensioni/Pil più in alto. Infatti è molto facile notare come le aspettative DEF 2018 (linea tratteggiata) siano molto minori rispetto a quelle del 2019 fino al 2040.
Persino l’Europa è intervenuta sul tema pensioni. Durante le ultime trattative riguardanti il Recovery Found il consiglio europeo ha chiesto delle garanzie. I paesi del nord, in particolare, non vogliono accettare il fatto che in Italia si spenda più del dovuto in cambio di qualche mancia elettorale. Infondo hanno ragione. Al centro del dibattito c’è stata la previdenza e nello specifico Quota 100. I miliardi del Recovery Found non devono essere buttati via. L’Europa ci chiede delle riforme sostenibili che una volta per tutte ricostruiscano il sistema socio-economico italiano. Se l’Italia cade a picco ne va della stabilità dell’Europa e dell’euro.
Lavoratori e pensioni
Un articolo del Sole24Ore sul rapporto tra occupati e pensionati ci dice che «I dati, aggiornati al 2018, parlano di un 46,4% di italiani maggiorenni che ha un’occupazione. Per contro il 22,2% della popolazione maggiorenne è in pensione dopo una vita di lavoro. Numeri tutt’altro che confortanti, specie se confrontati con il 62,1% di occupati in Estonia e nel Regno Unito e il 14,3% di pensionati irlandesi».
In un paese sempre più vecchio l’Ocse prevede che nel 2050 ci saranno più pensionati che lavoratori. Il Sole24Ore continua spiegando come «Il fatto che le persone vivano più a lungo e in una salute migliore è un risultato da celebrare – ha affermato Stefano Scarpetta, direttore dell’Organizzazione per l’Occupazione, il lavoro e gli affari sociali – Ma un rapido invecchiamento della popolazione richiederà un’azione politica concertata per promuovere l’invecchiamento attivo in modo da compensare le sue conseguenze potenzialmente gravi per gli standard di vita e le finanze pubbliche».
Se non ci muoviamo in tempo potremmo ritrovarci in una situazione difficile da risolvere e rendere il nostro sistema pensionistico non più sostenibile. I contributi pagati dagli occupati non riuscirebbero a compensare le pensioni erogate dallo stato che sarà costretto ad intervenire stanziando risorse aggiuntive che graverebbero sul debito pubblico.
Perché allora insultare la Prof.ssa Fornero se ha fatto il necessario per l’Italia? Forse lei aveva ragione, quando Salvini parla di pensioni non guarda lontano, non guarda ai giovani. Tuttavia il problema non è la Lega ma la convinzione italiana di vivere, ancora, nei trent’anni gloriosi.
Ogni lavoratore ha il diritto di vivere la propria vecchiaia in tranquillità dopo una vita di sacrifici eppure è necessario trovare un compromesso.
Non è possibile fare promesse elettorali a discapito di noi giovani. Bisognerebbe raccontare alla gente la verità. Chi, allora, si assumerà le responsabilità di questo enorme spreco? Quando noi giovani potremo andare in pensione come i nostri nonni? Certamente il tempo risponderà a queste nostre domande ma presto la storia ci presenterà un conto molto salato.