C’era un tempo in cui inserire i termini ‘economia’ e ‘cultura’ all’interno di una stessa frase sarebbe stato impensabile. “Il prezzo o il denaro sviliscono la cultura” oppure “l’opera d’arte viene trasformata in un banale prodotto commerciale”, si diceva.
Poi è arrivato Thomas Krens.
Il rapporto tra beni culturali e marketing è sempre stato ricco di problematicità, ma mai come negli ultimi anni l’intreccio tra questi due settori si è fatto così fitto. Nessuno può più negare che i musei siano strutture immerse in una realtà competitiva al pari di qualsiasi altra organizzazione.
Conseguenza di questa presa di coscienza, è stata la crescente attenzione da parte dei gestori di musei nei confronti di nuove tecniche e strategie di marketing. In questo modo, si possono infatti ottenere vantaggi economici e relazionali (rispetto ai propri diretti concorrenti) da non sottovalutare.
Trasformarsi per necessità
Il museo è, per sua natura, una delle istituzioni culturali più ricche dal punto di vista del valore delle opere che possiede, ed una tra le più povere per il denaro a disposizione.
Per questa ragione, e per sopravvivere a una crisi economica che dura da anni, alcuni musei hanno iniziato a cambiare. Hanno iniziato a diventare simili a centri commerciali, la qualità dei loro progetti espositivi ha iniziato a venire meno. L’attenzione si è rivolta soprattutto al commercio e al merchandising. In effetti, i musei che ricordiamo con maggior interesse sono quelli che ci lasciano qualcosa che va oltre la mostra in sé: un bookshop ben fornito, gadget originali, esperienze multimediali, un coffee shop di design, magari con una vista mozzafiato sulla città.
Thomas Krens, l’uomo della rivoluzione
Protagonista indiscusso di questo nuovo modo di gestire e considerare il museo è stato Thomas Krens, l’ormai ex direttore del Guggenheim di New York.
Dal 1988, e per vent’anni, egli portò avanti un’audace politica di rinnovamento del sistema museo. Iniziò un processo atto ad impiegare nel settore culturale strategie di marketing proprie delle aziende multinazionali.
Non pensava a sé stesso solo come il direttore di un museo. Krens incarnava la figura del manager, e, in quanto tale, trasformò la Fondazione Guggenheim in una vera e propria azienda.
“A good brand becomes an article of faith among a consumer audience. If you buy a BMW or a Mercedes, or stay at a Four Seasons hotel or go the Louvre, you can be pretty much guaranteed a quality experience.”
Thomas Krens
Tra le prime cose che fece ci fu l’introduzione, in ambito museale, del concetto di brand.
Il brand è la combinazione di elementi quali nome, slogan, logo, comunicazione, storia aziendale e reputazione che funzionano come segno distintivo ed esclusivo di un’azienda. Il museo divenne un marchio che, per funzionare, necessitava di una serie di iniziative.
Scopo di queste iniziative era quello di esportare l’immagine del museo stesso, di attrarre nuovi capitali e di aprire filiali all’estero.
Detto fatto. Nel giro di pochissimi anni, oltre alla già presente sede storica di Venezia (1980), vennero costruite ex novo quella di Bilbao (1997), di Berlino (1997) e le due sedi di Las Vegas (chiuse però rispettivamente nel 2003 e nel 2008). È ancora in costruzione il grandioso Guggenheim di Abu Dhabi, il cui progetto è stato affidato ancora una volta a Frank Gehry e la cui apertura è attesa nel 2022.
In secondo luogo, per avere liquidità, Krens, autorizzò il deceassioning , cioè la vendita delle opere di proprietà del museo. Si tratta di una pratica vietata nella stragrande maggioranza dei musei del mondo. Per i musei europei le opere d’arte sono, infatti, considerate di proprietà pubblica.
Nel 1990, Krens vendette la più antica collezione del Guggenheim (opere di Kandinskij, Chagall e Modigliani) per raccogliere 47 milioni di dollari per acquistare le sculture minimaliste degli anni ’60 e ’70 della collezione di Giuseppe Panza.
I retroscena
A raccontare i retroscena della condotta di Krens è stato nel 2009 Paul Werner, esperto d’arte ed ex guida della sede Guggenheim newyorkese.
Egli scrisse e pubblicò un pamphlet intitolato “Museo s.p.a. – La globalizzazione della cultura”.
All’interno del discusso volume, Werner descrive come Krens, partendo da una precisa convinzione, ossia “l’arte è una merce come tutte le altre, e come tutte le merci, deve essere impiegata a scopo di lucro”, abbia elaborato una nuova concezione del museo “senza avere alcuna concezione dell’arte”.
Paul Werner sostiene che…
Le campagne di deceassioning abbiano reso Thomas Krens poco affidabile agli occhi di filantropi e sostenitori. Essi avrebbero infatti preferito donare le proprie collezioni a musei meno inclini alle vendite.
Allo stesso modo, altri enti museali avrebbbero spesso negato dei prestiti perché l’idea di mostre itineranti presso le varie sedi del Guggenheim sarebbe diventata problematica dal punto di vista della sicurezza e della conservazione delle opere.
Krens, prosegue Paul Werner, era completamente privo di un vero progetto che potesse valorizzare l’immenso patrimonio custodito tra le mura del Guggenheim. L’uomo aveva infatti trasformato l’istituzione in una mera macchina del business, sempre con un occhio puntato al profitto.
Museo s.pa. sì, ma che funziona
Alcuni critici sostengono che Thomas Krens abbia trasformato il Guggenheim in un franchising simile a quello di Mcdonald (si parla del fenomeno cosiddetto di McDonaldizzazione) a scapito dell’espansione delle sue collezioni e delle sue dotazioni. È indubbio, però, che egli abbia effettivamente creato un modello di espansione efficace, copiato da istituzioni di tutto il mondo, tra cui la Tate e il Louvre.
Il Guggenheim Bilbao sta risultando essere un grande successo, che attira più di un milione di visitatori ogni anno da quando è stato inaugurato nel 1997.
Krens fu, inoltre, in grado di portare il bilancio della Fondazione a 118 milioni di dollari, a fronte dei 20 di inizio mandato.
Gli si deve anche dare atto dell’espansione, in termini di popolarità, del soggetto Guggenheim, ormai internazionalmente conosciuto e riconosciuto.
Il binomio economia-cultura è stato definitivamente sdoganato.