Nella notte tra l’8 e il 9 settembre il campo profughi di Moria, a Lesbo, è andato in fiamme. Adesso, 13 mila richiedenti asilo si trovano sull’isola vivendo in ripari improvvisati, con poco cibo e in scarsissime condizioni igieniche.
Le cause dell’incendio di Moria
Non si conoscono ancora le cause dell’incendio, anche se è certo che sia di natura dolosa. Il ministro greco dell’immigrazione, Notis Mitarachi, ha addossato la colpa ai richiedenti asilo costretti alla quarantena per via della loro positività al Covid-19, ribadendo che queste persone non resteranno impunite. Chi, però, a Moria è costretto a vivere riferisce che l’incendio è nato dopo gli scontri tra richiedenti asilo e forze di polizia greche. Se c’è da cercare un colpevole in tutto questo, questa è la disperazione. Perché Moria è il luogo in cui muore l’UE e il suo sogno di integrazione e fratellanza. Era una bomba ad orologeria che nessuno ha voluto o saputo disinnescare.
Vivere in un campo profughi
La maggior parte dei richiedenti asilo che giungono in Grecia vengono da zone di guerra del Medio Oriente. Una volta giunti in terra ellenica, per coloro che provengono da Stati riconosciuti , dalla Greciae dall’Europa, come zone di guerra scatta la procedura di richiesta d’asilo. Qui, i richiedenti, vengono smistati nei vari campi profughi sul territorio, dove sono costretti a vivere oltre i limiti della disumanità; aspettando e sperando che il lunghissimo iter burocratico di richiesta d’asilo dia loro un responso positivo.
Gli alloggi, nel campo profughi, non sono garantiti a tutti e quasi sempre i campi ospitano molte più persone rispetto la loro capienza massima. Basti pensare che il solo campo di Moria, ad esempio, ospitava circa 13000 profughi, quando la sua capienza massima era di 3000 persone. Stiamo parlando di una cifra quattro volte superiore a quella consentita. Chi è fortunato riesce a dormire nelle tende o nei containers messi a disposizione dall’UNHCR e dalle varie ONG umanitarie presenti sul territorio. Il resto è costretto a vivere in abitazioni di fortuna fatte di lamiere o sacchi di plastica.
Là dove anche un riparo di fortuna può, in minima parte, dare sollievo dalle intemperie, nulla può assicurare un riparo dalle scadenti condizioni igieniche sanitarie. Chi vive in questi luoghi dimenticati da dio, deve fare i conti anche con le discariche a cielo aperto che circondano il campo portando odori nauseanti e malattie.
Un nuovo campo in costruzione
La situazione sull’isola di Lesbo, dopo l’incendio, si è aggravata ancora di più. Secondo all’ultimo rapporto di Human Rights Watch, subito dopo lo scoppio dell’incendio, la polizia greca ha bloccato la strada che porta a Mytilene, la capitale dell’isola, impedendo la fuga dei richiedenti asilo in zone sicure. Sull’isola, si sta costruendo un nuovo campo profughi dove poter accogliere almeno 7000 persone. La situazione, però, tutt’ora rimane tutt’altro che sicura. Numerose donne e bambini, vittime di violenza nel campo, sono costretti a vivere a pochi metri di distanza dai propri molestatori.
Anche il rifornimento di food, no-food items e di acqua non è sicuro e continua ad essere poco coordinato. Diverse ONG, tra le quali INTERSOS, lamentano di avere poche possibilità di fornire assistenza umanitaria. I pasti e la fornitura d’acqua, al momento, vengono somministrati grazie all’uso di automezzi. Tutto ciò crea un continuo parapiglia tra i disperati. La gente si lancia verso i camion cercando di afferrare il più possibile, lasciando poco o nulla a chi arriva per ultimo.
L’Europa e il fallimento delle sue politiche migratorie
«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» , così scriveva Tomasi di Lampedusa nel suo celebre romanzo “Il Gattopardo”. Questa frase può essere benissimo accostata a quello che sta accadendo dentro la Commissione Europea riguardo al nuovo Patto di ricollocamento dei migranti e richiedenti asilo. Il nuovo testo, infatti, auspica un maggiore senso di solidarietà tra gli stati i quali potranno fare richiesta di accoglienza dei richiedenti asilo solo su base volontaria.
Questo Patto continua a non assicurare affatto, come accade tutt’oggi, che i paesi più refrattari (come l’Austria, l’Ungheria e Polonia) aprano le proprie porte ai richiedenti asilo. Esso promette, però, di fornire un maggiore supporto ai paesi di prima accoglienza, come Italia, Grecia e Malta, attraverso: la ricollocazione dopo il salvataggio in mare o un sostegno, da parte dell’UE, dopo lo sbarco e una maggiore velocizzazione delle procedure di riconoscimento dei migranti.
Intanto, la Germania, in risposta alla crisi umanitaria scoppiata a Moria è stato l’unico Stato europeo che ha dato la sua disponibilità ad accogliere 1500 rifugiati sfollati a causa delle fiamme.
Ciò che serve, adesso, è una risposta forte da parte dell’Europa. Una risposta comune. Non possiamo permetterci di far vivere queste persone in uno stato disumano. Vi è un’assoluta necessità che si trovi un nuovo accordo che superi il regolamento di Dublino e che tutti gli Stati europei facciano la loro parte nelle politiche di ricollocamento dei richiedenti asilo che hanno il diritto di vivere in Europa. Non dobbiamo fallire di nuovo.