Martha Gellhorn, nata nel 1908, è stata la più grande inviata di guerra di tutto il Novecento. Per tutta la vita la giornalista inseguì un solo obiettivo: andare a vedere. Ebbe una carriera gloriosa, ma allo stesso tempo una vita costellata di sofferenze, troppe volte all’insegna di quella solitudine propria delle donne che decidono di andare controcorrente.
Gellhorn e Hemingway: il travagliato matrimonio
“Devo vivere a modo mio o non ci sarebbe nessuna me per amarti”
M. Gellhorn in una lettera al marito Ernest Hemingway, 1943.
Dopo aver conosciuto Ernest Hemingway durante un viaggio a Key West, in occasione del Natale 1936, i due si misero d’accordo per raggiungere insieme la Spagna, dove lei fece da corrispondente per conto del “Coller’s Weekly” durante la Guerra civile spagnola tra il 1937 e il 1938.
Si innamorarono sotto le bombe di Madrid e, dopo aver vissuto insieme per quattro anni, i due si sposarono nel 1940. È proprio a Martha, infatti, che Hemingway dedicò la prima edizione di Per chi suona la campana. Tuttavia, la competizione e il senso di rivalità non tardarono ad arrivare e furono uno degli ostacoli più grandi per il matrimonio.
Sempre più irritato dalle lunghe assenze della Gellhorn, dovute al suo zelante impegno per essere sempre in prima linea, Hemingway non si disse d’accordo quando nel 1943 la giornalista volle partire alla volta del fronte italiano.
“Sei una corrispondente, o una moglie nel mio letto?”
Inviata in prima linea
Subito dopo la Guerra civile spagnola, Gellhorn aveva riportato dalla Germania l’ascesa di Adolf Hitler e nel 1938 era passata alla Cecoslovacchia. Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, raccontò questi e altri numerosi eventi di portata storica nel suo libro “A Stricken Field ” (1940).
Negli stessi anni fu corrispondente anche dalla Finlandia, dove assistette insieme a Indro Montanelli al giorno del bombardamento sovietico di Helsinki. Nel 1941 andò in Cina per il “Collier’s”, percorrendo il paese in aereo, in barca, a cavallo e a piedi pur di arrivare al fronte con il Giappone. Gellhorn fece un resoconto eccellente di questa spedizione intrapresa insieme ad Hemingway, che venne poi ripresa nella raccolta Travels with Myself and Another (1978).
Gellhorn fu la prima reporter di guerra presente allo sbarco in Normandia. In quel momento si trovava a Londra, ma era chiaro che la decisione degli Alleati di passare all’attacco in Francia era imminente. La giornalista decise di tornare prima a Cuba alla fine del marzo del 1944, in modo da convincere il marito a seguirla per testimoniare questo evento storico. Quando arrivò scoprì con enorme disappunto che Hemingway, che non era voluto partire nel 1943 per l’Europa, adesso si era accordato con il “Collier’s” senza averglielo comunicato, per essere il loro inviato speciale sul fronte della Normandia. Tra tutte le testate per cui avrebbe potuto scrivere, aveva scelto quella della moglie, per cui lei fu relegata immediatamente ad un ruolo secondario.
Il giornale aveva organizzato il viaggio di Hemingway, che raggiunse la Francia su uno dei pochissimi Clipper Pan Am rimasti ad attraversare l’Atlantico. Ma nessuno della redazione si preoccupò di garantire lo stesso passaggio a Gellhorn. Riuscì a partire alla fine a bordo di un cargo norvegese che trasportava armi destinate all’Inghilterra.
Una volta arrivata, non potendo prendere parte allo sbarco in quanto giornalista donna, pur di essere presente all’evento si imbarcò fingendosi inizialmente un’infermiera e seguendo poi le truppe di nascosto. Il servizio stampa americano la accusò di aver infranto le regole che proibivano alle inviate di andare sul campo di battaglia. Per punirla venne posta sotto sorveglianza, da cui però riuscì a fuggire.
Il 24 giugno 1944 scrisse una lettera in cui lamentava il trattamento riservato alle giornaliste, ritenendo che fosse un’ingiustizia che non potessero svolgere il loro lavoro:
“Troppo spesso ho l’impressone che le corrispondenti di guerra siano considerate delle seccatrici”
Martha Gellhorn
Durante la Seconda guerra mondiale, su circa seicento giornalisti americani accreditati al comando militare a Londra, solo diciannove erano donne. La regola che queste dovevano seguire era una: andare in luoghi dove fossero già presenti altre donne nelle unità combattenti, ovvero le infermiere che portavano soccorso ai feriti. Questo voleva dire che le giornaliste sarebbero dovute stare perennemente nelle retrovie, mentre i loro colleghi avrebbero potuto seguire i militari in prima linea.
Raccontare la brutalità della guerra
Nel maggio del 1945 Gellhorn era stata anche la prima giornalista a portare testimonianza del campo di concentramento di Dachau, il primo lager aperto nella Germania nazista, appena dopo la liberazione. In uno dei suoi pezzi più potenti “Dachau: Experimental Murder” raccontò l’abisso del lager. Descrivendo il filo spinato, gli scheletri e i forni crematori pose il lettore faccia a faccia con l’orrore:
“Abbiamo visto molte cose, ormai; abbiamo visto troppe guerre e troppe morti violente. Ma nulla, in nessun luogo, era paragonabile a questo. Niente, nella guerra è mai stato così follemente malvagio. […] La guerra è sempre stata peggio di quanto io sapessi esprimere. Sempre. […] Dachau mi ha cambiato la vita. Da allora non sono più la stessa, non ho più provato speranza, innocenza e gioia“.
Martha Gellhorn
Gellhorn era rimasta profondamente sconvolta da quella esperienza, ma riteneva che il dovere di giornalista fosse quello di continuare a testimoniare. La notizia che la guerra era finita le arrivò proprio dopo essere stata in quei luoghi tremendi:
Dachau mi sembrò il luogo più adatto d’Europa dove ricevere la notizia della vittoria. Perché certamente questa guerra era stata fatta per abolire Dachau e tutti gli altri posti come Dachau e tutto ciò che Dachau rappresentava, per sempre.
Martha Gellhorn
Da quel momento si concluse il suo periodo più prolifico, anche se continuò la sua lunghissima carriera.
Il 1944 è anche l’ultimo anno in cui vide il marito, da cui divorziò l’anno seguente e che nel 1961 si sarebbe poi suicidato. Quando l’amore per Hemingway finì, a Martha rimanevano la reputazione e la carriera che si era costruita con fatica per tutti gli anni Quaranta ed erano l’unica cosa che contava.
Martha Gellhorn: una giornalista avvincente
Martha seguiva la guerra ovunque questa la portasse, definendosi “un registratore che cammina e ha gli occhi“. Tuttavia, Gellhorn non era solo questo: riportava fedelmente tutto ciò che vedeva e ascoltava, traducendolo in articoli avvincenti che catturavano la realtà complessa facendola diventare fruibile per il grande pubblico. Il suo marchio di riconoscimento erano frasi brevi e ad effetto, il ritmo serrato e la costruzione raffinata di ogni pezzo.
La sua scrittura ha offerto più della semplice descrizione della strategia e dei risultati di battaglia: i suoi lettori leggendo gli articoli potevano percepire i rumori e persino gli odori della guerra.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la Gellhorn lavorò per “The Atlantic Monthly”, facendo reportage sulla Guerra in Vietnam, decisa a smascherare la propaganda ufficiale degli USA. Questo conflitto la colpì molto e nei suoi articoli era evidente la critica verso il governo, per cui dal 1966 non poté più ritornare in Vietnam in quanto persona non gradita.
Scrisse inoltre sulla Guerra dei sei giorni e sulle Guerre civili in America Latina. A 81 anni partì improvvisamente per Panama, volendo testimoniare l’invasione statunitense del 1989. Solo nel 1990 ammise di essere troppo vecchia per partire alla volta della Bosnia.
La notte del 14 febbraio del 1998 Martha decise di porre fine alla propria vita come aveva fatto anni prima il suo ex marito. Se Hemingway aveva scelto la sua fine, non riuscendo più a scrivere a causa della depressione e della malattia, Gellhorn fece lo stesso a 89 anni, non potendo più in alcun modo inseguire la guerra in ogni angolo del mondo.
È tutta la vita che paga la libertà con la solitudine e che rivendica con orgoglio questa scelta. Forse [in quell’ultimo momento] si ripete una delle sue frasi più vere: “Nessuno può impedire a una donna di vivere la sua vita”.
– Lilli Gruber, nel suo ultimo libro “La guerra dentro: Martha Gellhorn e il dovere della verità”.