Le elezioni presidenziali in Colombia hanno decretato la vittoria del candidato Gustavo Petro con il 50.57% dei voti. Senatore progressista ed ex-sindaco di Bogotá, Petro è il primo presidente di sinistra nella storia bicentenaria del paese sudamericano.
L’elezione di Petro in una Colombia divisa
Sotto la spinta di imponenti proteste di massa, in America Latina si aggiunge un nuovo tassello alla rinnovata “marea rosa” social-democratica: il neoeletto Gustavo Petro in Colombia. Gli ultimi anni sono stati rocamboleschi per il sottocontinente, tra grandi proteste popolari in vari paesi come Cile, Venezuela, Ecuador, Perù, Bolivia, El Salvador e la stessa Colombia. Qui le manifestazioni dell’anno scorso sono sfociate in brutali scontri con la polizia che hanno provocato decine di morti e numerosi casi di violenza e stupri. I manifestanti allora avevano indetto il paro nacional reagendo alla stretta fiscale annunciata dall’impopolare governo di Iván Duque Márquez, denunciando le sue politiche economiche e sociali.
Domenica scorsa il lascito dello stallo sociale si è riflesso sul risultato delle urne, dove Petro ha vinto con la cifra record di 11,2 milioni di voti. È un risultato epocale, che come ha detto lo stesso Petro scrive una “nuova storia per la Colombia, per l’America Latina e per il mondo”. Tuttavia, l’esito delle elezioni arriva in un momento di forte polarizzazione del paese, tra un elettorato conservatore e spaventato da una parte e i ceti sociali più poveri che vedono in Petro l’unica via d’uscita da una realtà fatta di disuguaglianze sociali, povertà e violenza.
Il ruolo di vicepresidente spetta all’attivista sociale e ambientale Francia Márquez, prima donna afro-colombiana a ricoprire tale carica. Márquez ha alle spalle una lunga attività di denuncia delle miniere illegali nelle zone più colpite dalla guerriglia delle FARC e dalla violenza del narcotraffico. Inoltre, la lotta in ambiti come le disparità economiche delle donne, il razzismo, il diritto all’aborto, la violenza strutturale nella società colombiana e lo sfruttamento scellerato delle risorse naturali l’hanno elevata a simbolo di una società desiderosa di rinnovamento.
Le critiche da destra
Catalina Escobar, membro dell’Associazione Nazionale degli Impresari Colombiani, in un messaggio poi divenuto virale riflette sulla sconfitta della destra. “Ora abbiamo un compito più difficile, quello di trasmettere ottimismo”, e aggiunge “cambiando le nostre politiche imprenditoriali basate su proposte più umane e meno dissociative”.
Tuttavia, non mancano le voci più critiche verso la nuova amministrazione. Il passato di Petro da militante nel gruppo paramilitare rivoluzionario M-19, nonché la promessa di ridurre le pene ai manifestanti incarcerati sono tutti elementi che fanno storcere il naso all’area conservatrice. Anche l’intenzione di ristabilire le relazioni diplomatiche con il vicino Venezuela di Nicolás Maduro non è risultata gradita. Infatti, da subito Petro si è posto in contrasto con il presidente uscente Duque, figura di spicco nel fronte internazionale contro il regime di Caracas.
È proprio il timore di una deriva chavista sulla falsariga di quanto avvenuto in Venezuela a preoccupare il fronte politico “uribista”, ossia tendente al liberalismo di destra alla guida del paese da anni. A tal riguardo, Petro ha garantito il rispetto delle libertà economiche, affermando che in Colombia ci sarà spazio per il capitalismo in un’ottica di sviluppo e inclusione. Intanto ci sono forti preoccupazioni sulla risposta dei mercati finanziari al risultato elettorale, mentre gli investitori aspettano con trepidazione di conoscere chi sarà alla guida del ministero delle finanze del nuovo governo.
La “marea rosa 2.0” arriva anche in Colombia
Con questa espressione, “marea rosa”, i politologi avevano individuato la virata a sinistra di buona parte dell’America Latina nei primi anni 2000. Infatti, in quegli anni diversi governi avevano messo in discussione le formule economiche neoliberali del Washington Consensus. Rafael Correa in Ecuador, Evo Morales in Bolivia, Lula da Silva in Brasile e Hugo Chávez in Venezuela sono solo alcuni dei presidenti saliti al potere in questo periodo. Tale ondata si era spenta con il sorgere di una contro-ondata di destra arrivata a ridosso del 2010 e proseguita fino al 2018.
C’era stata l’ascesa di Jair Bolsonaro in Brasile, Mauricio Macri in Argentina, Sebastián Piñera in Cile, mentre la morte di Fidel Castro e Hugo Chávez avevano privato la sinistra latino-americana di due importanti figure ideologiche. A ridosso di questi anni il neoliberalismo ha ripreso nuova spinta anche nel contesto di nuovi blocchi commerciali nel sottocontinente, come dimostra l’Alianza del Pacífico formata nel 2012 da Cile, Perù, Colombia e Messico e interamente proiettata verso gli scambi con l’Asia. Successivamente, nel 2018 l’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR), organismo internazionale alternativo alla proposta statunitense di creare un’enorme area di libero scambio interamericana, fallì con l’abbandono della maggior parte dei suoi membri.
Ora il tradizionale presidenzialismo latino-americano, dopo l’ondata di proteste sociali del 2018-2021, sembra riproporre una “marea rosa 2.0“. Si va dal controverso Andrés Manuel López Obrador eletto nel 2018 alla guida del Messico, al Cile del giovanissimo ex attivista studentesco Gabriel Boric, fino ad arrivare al probabile ritorno di scena di Lula alle elezioni brasiliane di ottobre.
Il nuovo governo di Gustavo Petro si colloca in questa nuova tendenza generale che si spera possa davvero sanare le mille problematiche che affliggono questa regione del mondo, tra enormi disuguaglianze sociali, sfide ambientali e forte polarizzazione politica.