Finalmente è arrivato uno dei momenti più attesi dell’anno, forse più che il proprio compleanno o addirittura il Natale, l’inizio della famigerata Fase 2. La famosa quarantena ci ha accompagnato dall’ormai lontano 9 marzo ininterrottamente fino a ieri, costringendoci a vivere “a distanza” la primavera. I più fortunati tra voi hanno potuto godere i tiepidi raggi primaverili nel proprio giardino, o nel proprio terrazzo, ma c’è anche chi, come chi sta scrivendo, si è dovuto accontentare di una vecchia e malmessa finestra prospicente al cortile interno del proprio condominio. Nonostante questo mio “belvedere”, dalla qualità non proprio altissima, ho riscoperto il rapporto con colei che mi permetteva di vivere il mondo esterno: la finestra. Artisticamente parlando spiegare questo rapporto è complicato e forse nessuno ha avuto più successo nel raccontare l’esperienza con ciò che c’è al di là del vetro che René Magritte nei suoi quadri.
La finestra come immagine del dubbio
Per Magritte la finestra divenne quasi una ossessione, una sorta di medium per comprendere e scandagliare la realtà che si cela in quel limite fisico. Le sue finestre, come vedremo, non sono mai il soggetto delle sue opere bensì mezzi per carpire il pensiero e l’interiorità dello spettatore. Vedute tranquille, quasi noiose in sé, ma capaci di far nascere una forte riflessione nella mente di chi guarda. Gli occhi di René diventano i nostri e il nostro essere l’oggetto della sua ricerca. Non sarà dunque un caso se l’artista venne ribattezzato le saboteur tranquille proprio per quella sua particolare capacità di far divampare il dubbio e il senso di smarrimento in chi guarda. Reale e irreale si fondono al punto che le sue tele appaiono, a un primo e superficiale sguardo, come delle semplici riprese puntuali di ciò che esiste oltre la finestra, ma non è affatto così.
Cosa è dunque reale? Cosa non lo è? Domande che almeno una volta ci sono balenate nella mente in questo lunghissimo periodo di relegazione in casa. Ci siamo tutti chiesti se fosse possibile che, là fuori, oltre duecentomila persone avessero contratto questo ignobile coronavirus. Ammettiamolo, a volte è sembrato fosse tutto una finzione teatrale, un videogioco o un sogno. Una pandemia mondiale nel 2020? Non scherziamo! Purtroppo però la realtà è quella e da essa, benché al sicuro nelle proprie case, non si può sfuggire. In questo periodo abbiamo così imparato a dialogare, a distanza, con ciò che esiste e si estende al di là della finestra; Una barriera trasparente che separa un mondo reale, da noi vissuto quotidianamente, da uno che, in un certo senso, è solo supposto, impercorribile, al di là del vetro. Questa volta la realtà non è poi così distante da un quadro surrealista di Magritte.
Il quadro nel quadro – La Condizione Umana I e II
Chiunque si ponga innanzi a “La Condizione Umana I”, opera conservata a Washington, non può far a meno di domandarsi che cosa l’artista abbia realmente voluto rappresentare. Lo spettatore, nella finzione artistica, si ritrova nella stanza del pittore, davanti a una finestra. Al primo colpo d’occhio percepiamo ciò che si dipana oltre la grande apertura centinata: un paesaggio primaverile in cui spicca, solitario, un albero. Questo è almeno quello che possiamo immaginare di trovare al di là del vetro. Solo in un secondo momento ci si accorge che quello che stiamo ammirando non è il paesaggio vero e proprio ma una sua probabile copia. Lo strano artificio è svelato solo grazie al nostro angolo di visione, leggermente obliquo, che ci permette di osservare i bordi della tela. La presenza del tendaggio con cui si sovrappone non è casuale, ci proietta infatti in una dimensione scenica, alla stregua di un sipario.
La stessa sensazione si ritrova nella seconda versione del dipinto, “La Condizione Umana II”, dipinto due anni dopo, nel 1935. Qui ci ritroviamo in una spoglia e grigia stanza a ridosso del mare, la finestra è scomparsa ma al suo posto Magritte ha aperto un arco. L’opera, dal vago sentore metafisico, gioca ancora sulla percezione reale-irreale grazie alla tela che non fa altro che proseguire il paesaggio lì dove non è visibile. Essa è come fosse una continuazione della apertura ad arco e ci permette, grazie a un taglio diverso rispetto all’opera precedente, di completare idealmente, e all’infinito, quel paesaggio marino. Magritte in queste opere ha voluto rendere dinanzi agli occhi dello spettatore l’ambiguità del dipinto, se esso rappresenti o meno la realtà che sta oltre la finestra, in una riflessione che è tipica del Surrealismo. Sono le composizioni stesse a suggerire la letteratura di questi dipinti, sapientemente studiati nel loro disegno geometrico.
“Misi di fronte a una finestra, vista dall’interno d’una stanza, un quadro che rappresentava esattamente la parte di paesaggio nascosta alla vista del quadro. Quindi l’albero rappresentato nel quadro nascondeva alla vista l’albero vero dietro di esso, fuori della stanza. Esso esisteva per lo spettatore, per così dire, simultaneamente nella sua mente, come dentro la stanza nel quadro, e fuori nel paesaggio reale. Ed è così che vediamo il mondo: lo vediamo come al di fuori di noi anche se è solo d’una rappresentazione mentale di esso che facciamo esperienza dentro di noi” – René Magritte
La percezione Interno-Esterno
Dopo questi rigorosi e pacifici dipinti non può che insinuarsi una scintilla di caos, di irrazionale, che sottolinea come lo straniamento delle opere precedenti possa diventare qualcosa di ancor più insolito. Ne “La chiave dei campi”, opera nel 1336, Magritte raffigura la stessa finestra del suo studio ma con un differente paesaggio. La tela riporta l’attimo immediatamente successivo alla rottura della finestra, durante il rovinare a terra dei vetri. L’immagine parrebbe comunicare un’idea di fuga o liberazione ma, a contrastare questa impressione, il cadere dei frammenti avviene all’interno della stanza, come se la violenza provenisse da fuori. Le tante schegge taglienti riflettono ancora l’immagine che prima filtravano, svelando il surreale latente. L’illusione del “di fuori” è qui evidente, la nostra percezione dell’esterno è una immagine-copia di ciò che in realtà sussiste oltre questo limite fisico. Una realtà che può apparire sì idilliaca ma che può celare anche dei pericoli.
Quasi trent’anni dopo, nel 1963, Magritte si cimenterà in “Il Telescopio”, opera che affronta ancora una volta il divario esterno-interno. Vi è raffigurata una anonima parete marrone, la cui parte bassa è decorata da una fantasia geometrica, con al centro una finestra. Essa è socchiusa e, nonostante rifletta il mare che si perde nel cielo azzurro, si apre su una profonda oscurità. Qual è il dentro e qual è il fuori? Un conflitto che richiama quello dell’anima davanti a opposte suggestioni. L’oscurità che popola il centro della tela è il fulcro dell’intera opera. Che sia una finestra cieca e che quell’immagine sia una illusione poco importa di fronte al dramma di una realtà dalla dubbia connotazione. Vi è un senso di oppressione: il nostro sguardo sbatte violentemente contro questa parete, invalicabile, e le onde del mare sono solo una fantasia utopica o il riflesso di ciò che abbiamo lasciato alle spalle.
La “Poetica della Finestra” come riflessione filosofica
René Magritte ha voluto celare dietro questa “poetica della finestra” il mistero del quotidiano e dell’impalpabile confine tra realtà e finizione. L’esistenza di un rapporto concreto tra ciò che è reale e ciò che è riproduzione è semplicemente il “riflesso” del rapporto ambiguo tra uomo e realtà, tra oggetto e percezione di esso. I vari esempi di “quadro nel quadro” dell’artista belga permettono di intuire vari punti di vista che non sempre sfociano nella corretta decifrazione di ciò che vi è realmente. A conclusione di questo percorso vi è comunque l’idea che tutto ciò sia esplicitamente finzione poiché il quadro stesso, per sua definizione, non è reale. Quella dimensione altra, che anche noi viviamo dalle nostre finestre, è semplicemente il frutto della nostra psiche, la quale tende sempre ad una interpretazione soggettiva della realtà. Il reale e l’irreale sono dunque parte della stessa medaglia chiamata mente umana.
Danilo Sanchini