venerdì, 20 Dicembre 2024

La “nuova” Arabia Saudita: riflessione critica sul riformismo di bin Salman

Nelle ultime settimane, l’Arabia Saudita è stata al centro di una serie di eventi tali da renderla insistentemente oggetto di dibattito politico. È notizia di pochi giorni fa il fatto che l’Amministrazione Biden abbia deciso di rendere pubblico il report della CIA sull’omicidio Khashoggi, molto accusatorio nei confronti di Muhammad bin Salman. Dopo due amministrazioni consecutive molto concilianti con il regime di Riyad, la presidenza di Joe Biden rischia di imboccare la strada contraria. Ma anche nel dibattito politico italiano si è molto parlato della famiglia Sa’ud, per via della partecipazione del senatore Matteo Renzi ad una conferenza in Arabia Saudita, alla presenza dello stesso bin Salman. L’ex-premier è stato fortemente criticato in particolare per le sue lodi al principe ereditario e i suoi riferimenti a un “nuovo Rinascimento” di cui Riyad sarebbe il centro nevralgico.

Il riformismo saudita degli ultimi anni, patrocinato proprio da bin Salman, è sicuramente una realtà ma porta con sé una serie importante di criticità. Non sono pochi a sostenere che sia solamente un’operazione “di facciata” tesa a mascherare un persistente oscurantismo. Come quasi tutte le asserzioni, anche in questa c’è una parte di verità, ma non è “la” verità. Come ogni contesto politico, il Regno dell’Arabia Saudita è un colossale mix di elementi diversi e bisogna avere l’onestà di non ridurlo all’idealtipo che ognuno di noi si è costruito nella propria mente. Bin Salman è un’oscurantista E un riformista, un uomo moderno E un principe ereditario ancorato ad antichi valori, un (più che probabile) mandante di assassini politici E un autentico liberale (inserito nel contesto in cui opera). Nessuna contraddizione, nonostante l’apparenza.

Le due anime del regno saudita

L’anima tradizionale

L’Arabia Saudita è un regime politico estremamente atipico nel mondo moderno. La sua nascita risale all’inizio degli anni ‘30, in un periodo storico in cui gli stati sovrani al di fuori dell’Europa si contavano sulle dita di una mano. Deve la sua fortuna alla famiglia Sa’ud e in particolare ad ‘Abd al-‘Aziz al-Sa’ud, “padre della nazione” che negli anni ’20 si lanciò in una straordinaria opera d’unificazione della penisola arabica partendo dalla zona centrale desertica, il Najd. Dal punto di vista militare, la conquista beneficiò dell’aiuto degli Ikhwan (“Fratelli”), feroce milizia armata fondamentalista, devastante sul campo di battaglia e famosa per la sua spietatezza: famosa a tal proposito è la distruzione della città santa sciita di Karbala e le migliaia di vittime musulmane. Dal punto di vista ideologico invece, la famiglia Sa’ud aveva già da tempo stretto un patto con la corrente islamico-radicale wahhabita.

Il wahhabismo è ancora oggi la forma di Islam ufficiale dell’Arabia Saudita, anche se nei documenti ufficiali si tende a preferirle il termine “salafismo”. Nato nel XVIII secolo grazie all’opera di al-Wahhab, è una forma rigida e fondamentalista. Storicamente si rifà alle opere del grande pensatore Ibn Taymiyya, alla scuola teologica degli Ahl al-Hadith e quindi, per convergenza ma senza sovrapposizione, alla scuola hanbalita. Le fondamenta da cui partire sono dunque le fonti primarie islamiche (Corano e Sunna del Profeta) e la loro osservanza deve essere rigida. Visivamente, il comportamento tipico wahhabita che maggiormente colpisce è la feroce iconoclastia e il livellamento sistematico delle tombe per via di alcuni hadith (“detti del Profeta”) che negano la possibilità di intercessione dei morti. L’ingresso nella modernità, comunque, ne ha notevolmente ammorbidito la rigidità ideologica.

L’anima modernista

Nonostante questo schema ideologico piuttosto rigido, che condiziona fortemente l’immagine saudita che si ha a Occidente, il Regno è pervaso anche da una forte corrente modernista, quantomeno in senso economico. Si tratta di una peculiarità di quasi tutte le efficientissime economie del Golfo: a fronte di un contesto politico-sociale tradizionalista e reazionario, un contesto economico vivace, proattivo, votato all’imprenditorialità. Favorito anche dai lavori del Gulf Cooperation Council, istituzione nata nel 1981 e modello virtuoso di integrazione economica. L’Arabia Saudita, la più grande delle economie della regione, nonostante alcune peculiarità (riguardanti soprattutto il mercato del lavoro) è dunque pienamente inserita nelle dinamiche dell’area e ne rappresenta di fatto il membro più influente. In questo contesto, anche Riyad da qualche anno si trova ad affrontare la difficile sfida della diversificazione.

In un mondo economico mediorientale da decenni intrappolato nelle dinamiche inefficienti dei rentier state (nazioni la cui quasi totalità delle entrate deriva dallo sfruttamento di una specifica risorsa naturale, da cui si traggono incentivi per immobilismo, corruzione e clientelismo), e in cui il petrolio rischia improvvisamente di divenire risorsa scarsa, si tratta di un’operazione difficile ma necessaria. E qui entra in gioco Muhammad bin Salman, figlio di Re Salman e Principe ereditario della Corona saudita. Già Ministro della Difesa, MBS (questo il soprannome) è da alcuni anni a capo dell’ambizioso progetto Vision 2030: obiettivo, l’indipendenza dal petrolio. Nonostante lo stop forzato causato dalla pandemia di covid-19, che ha portato a una netta ridefinizione di obiettivi e tempistiche, il progetto rimane uno sforzo importante e significativo nell’ambito del rinnovamento dello stato saudita.

La sintesi di Muhammad bin Salman

La traiettoria politica di bin Salman è la storia di una poderosa ascesa iniziata nei primi anni 2010 e concretizzatasi dal 2015. Con il passaggio del trono saudita a Re Salman, MBS acquisì in successione tutta una serie di cariche importanti fino ad arrivare, oggi, ad essere il vero volto della casa reale nell’arena internazionale. È lui che si presenta alle riunioni del G20, che incontra i capi di stato, che gestisce i progetti di sviluppo e di diversificazione economica. È lui a gestire le operazioni militari in Yemen e la partnership strategica con gli Stati Uniti.

Ed è sempre lui ad incarnare il volto modernista dell’Arabia Saudita, nel nome della più volte invocata “Rivoluzione dall’alto” che finalmente possa cambiare e innovare il paese. Allo stesso tempo però, è stato anche, fuor di ogni ragionevole dubbio, il mandante dell’omicidio Khashoggi e di sistematiche epurazioni degli oppositori politici. In lui, più che in chiunque altro, si concentrano le possibilità e le contraddizioni, le virtù e le mostruosità, il tradizionalismo e il modernismo del Regno saudita.

Tra tradizione e modernità

Da un lato, il riformismo di bin Salman è un fatto che non può essere ignorato. 35 anni, molto giovane per gli standard del paese, è il rappresentante prescelto di un ampio segmento di under 40 sauditi orientati al cambiamento. È stato in grado di vestire questo ruolo con efficacia, affiancando a grandi riforme economiche anche delle concessioni politico-sociali (in particolare riguardanti i diritti delle donne). La critica tende a tacciare questi provvedimenti come “opportunistici” e legati più all’immagine che MBS tenta di esportare all’estero. Ciò è sicuramente vero, ma non deve portare a sottovalutare l’innegabile progresso verso un “modo di essere stato” più al passo coi tempi.

Dall’altro lato, bin Salman rimane espressione del tradizionalismo tipico della casa Sa’ud. Nonostante diversificazione e modernizzazione, il substrato politico saudita rimane ancora molto ancorato ad antichi schemi. Stato, società ed economia rimangono nelle salde mani della famiglia reale. La partecipazione popolare alla politica è semplicemente inimmaginabile. Le carriere nell’amministrazione dipendono quasi interamente dalla capacità di tessere rapporti con le élites verticistiche. L’Islam wahhabita rimane l’ideologia di stato, con tutte le sue storture e il suo “fare a pugni” con molti elementi della modernità. Bin Salman non si allontana da questi schemi, ma vi agisce all’interno in chiave innovativa.

Bisogna avere l’onestà di ammetterlo: in un contesto così chiuso, tradizionalista e personalistico, il rischio di una leadership “introspettiva”, che guardi solamente all’interno e si opponga ideologicamente ai rapporti con l’esterno, è più che presente. La storia, ma anche l’attualità, sono popolate di simili esempi: Corea del Nord, Afghanistan talebano, Iran post-rivoluzionaria, Iraq post-Golfo I. Muhammad bin Salman, con tutte le sue gigantesche storture, problematiche e barbarità, rappresenta ugualmente un’opportunità, sia per l’Arabia Saudita, sia per l’Occidente.

Come rapportarsi con l’Arabia Saudita?

L’Arabia Saudita ha sempre vissuto meno dell’Iran, suo grande contraltare regionale, l’isolamento internazionale. E ciò a dimostrazione di un fatto: non esiste posizione ideologica “così inconciliabile” da non poter essere superata con un atteggiamento intelligente. In alcun modo l’Arabia Saudita rappresenta un interlocutore aprioristicamente migliore dell’Iran, per l’Occidente. Provocatoriamente, verrebbe da dire: almeno a Teheran ci sono elezioni, pur con tutte le limitazioni del caso. Usiamo il Freedom Rating, indice di qualità democratica prodotto da Freedom House: al 2019, l’Iran ha un punteggio di 16/100. L’Arabia Saudita di 7/100. Eppure, cause storiche e politiche hanno creato questa grande spaccatura tra le due nazioni: l’Iran un “paria” internazionale, l’Arabia Saudita un alleato. Molto dipende dalla storia: i fatti del 1979 iraniano e il successivo “decennio nero” in isolamento ne hanno pregiudicato l’immagine fin dal primo momento.

L’Arabia Saudita invece nasce come entità statale negli anni ’30, in un contesto di beneplacito britannico, e da allora non ha mai cambiato la sua struttura amministrativo-sociale. Ma molto dipende anche dalla volontà degli attori internazionali. Entrambe le nazioni hanno attraversato periodi di apertura e periodi di forte contrazione e chiusura. Il khomeinismo e il wahhabismo, pur agli antipodi teologici, condividono un lato fortemente oscurantista che è facile cavalcare dall’élite politica di turno. In altri momenti questa apertura c’è stata, così come la volontà di impostare una collaborazione con l’Occidente. Nel caso iraniano, la risposta è stata mista, a fasi alterne, non continua, e ha provocato un ulteriore degrado dei rapporti. Nel caso saudita, questa porta è rimasta aperta più a lungo e la collaborazione strategica con gli USA è stata per decenni un perno della geopolitica mediorientale.

Proposte per l’oggi

Quali conseguenze per l’oggi? Lungi da voler fare un’apologetica del viaggio di Renzi a Riyadh (subentrano questioni più delicate relative al ruolo del senatore, al compenso e alla non-ufficialità dell’evento), bisogna però affermare con forza: vietato fare, coi sauditi, l’errore fatto con l’Iran. I rapporti internazionali costringono da sempre i vertici statali a confrontarsi con realtà sgradite. Solo con il confronto continuo e coi buoni rapporti si può pensare di spingere un altro paese verso gli ideali che noi riteniamo inviolabili. La figura di Muhammad bin Salman è, come abbiamo visto, un concentrato di problemi e contraddizioni, ma è anche la figura più liberale che dell’Arabia Saudita attuale. Affossare in partenza ogni possibile dialogo con MBS e con l’espressione di una Riyadh più moderna e imprenditoriale sarebbe un errore. Questo significa sottovalutare o dimenticare il fatto Khashoggi? Assolutamente no.

Ma la politica, specialmente la politica internazionale, è fatta di compromessi. Ad essere stretti, la metà dei capi di stato mondiali porta sulle spalle l’onta di (almeno!) un omicidio politico. Non è il mondo ideale, ma è il mondo in cui bisogna agire. Non per questo si smette di relazionarsi con la Russia di Putin, con la Corea di Kim, con il Myanmar dei militari o con l’Egitto di al-Sisi. E il livello di ragionamento può essere abbassato anche a livello meso o micro: più rapporti con i sauditi, più conferenze, più imprenditorialità integrata! Non meno, nascondendosi dietro il mondo degli ideali e ignorando la realtà della politica: le cose non cambiano da sole. Il modo peggiore per immaginarsi una svolta sociopolitica positiva nel futuro dell’Arabia Saudita è auto-isolarsi dal processo che, si spera, porterà al cambiamento.

Matteo Suardi
Matteo Suardi
Matteo Suardi, oltrepadano di nascita e di spirito, classe 1997. Studio Scienze internazionali all'Università di Torino, profilo Middle East and North Africa. Fiero appassionato di Medio Oriente, multilateralismo e studio delle religioni, scrivo per Sistema Critico nella sezione Politica. Die hard fan dell'ONU, unica cosa al mondo che mi emoziona più di Roger Federer.

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