Due mesi fa mi sono molto divertita a scrivere un articolo su come sia cambiata l’idea che abbiamo di casa, dalla generazione dei Millennials in poi. Per farlo sono partita dalla mia esperienza personale: la vita frenetica e senza radici di una fuorisede incallita. Ora, premettendo che questo modo di scrivere mi ricorda più Carrie Bradshaw che le mie amate reporter di guerra, proverò comunque a seguire questo filone.
Questo mese vorrei affrontare una questione ancora più annosa della casa: come è cambiata l’idea di lavoro.
Avere un quarto di secolo ed essere iperspecializzato
“La nuova economia, caratterizzata dall’incertezza, dall’imprevedibilità e persino dal caos non permette a molti giovani professionisti di progettare in modo lineare e razionale il proprio futuro professionale e in tal modo da di costruire la propria carriera”.
– Klement Polacek
Avere 25 anni vuol dire essere arrivati a quel meraviglioso momento della vita in cui, volenti o nolenti, dovremmo poter mettere a disposizione del mondo del lavoro tutto quello per cui ci siamo istruiti negli ultimi, più o meno, 10 anni della nostra esistenza.
Una specifica qui è d’obbligo: parlerò dalla piccola bolla di chi ha potuto/voluto fare un percorso universitario completo, che ha avuto la possibilità economica di trasferirsi per farlo e che, soprattutto, ha il privilegio di non aver dovuto iniziare a lavorare prima. Sono stata fortunata, lo so, e non smetterò mai di essere grata per questo.
Ma torniamo a noi: avere 25 anni. Dopo aver affrontato 5 anni di liceo classico, una triennale in Scienze Politiche, una magistrale in Studi Internazionali e persino un master in Public Affairs, è finalmente giunto il momento per me di iniziare a lavorare. Certo, avrei potuto conseguire anche un dottorato. Vorrei partire da qui, perché questo mi offre lo spunto per parlare del primo grande cambiamento avvenuto nel mercato del lavoro negli ultimi decenni: l’iperspecializzazione è d’obbligo, ma non paga.
Fin da subito si è consapevoli di dover inserire competenze sempre più specifiche nel CV, questa è la ragione per cui ho deciso di conseguire anche un master. Viene da chiedersi però se il mercato del lavoro, che ci chiede anni di esperienza anche per posizioni junior e di essere praticamente onniscienti nel nostro campo (e a volte anche in altri), abbia iniziato a offrire posizioni lavorative che ripagano tutto il nostro impegno.
La risposta è no e il confronto tra ieri e oggi può farcelo capire meglio.
Si stava meglio quando si stava peggio
I miei genitori, nati alla fine degli anni ‘50, hanno completato la loro formazione universitaria trovando subito uno sbocco lavorativo corrispondente alle loro aspirazioni e percorso di studi. Certo, sono persone che hanno lavorato duramente per arrivare dove sono ora, ma questo non toglie che rispetto a 40 anni fa adesso diventare docente universitario o psicologo (rispettivamente mia madre e mio padre) sia diventato estremamente più difficile. Ad esempio, ai tempi di mia madre per diventare docente universitario non serviva aver conseguito un dottorato di ricerca, la concorrenza era forte ma non così spietata e il sistema per accedere alla carriera accademica non era così ingolfato.
Rispetto a noi i nostri genitori hanno anche studiato meno. Basta guardare un libretto universitario per rendersene conto. Nel 1985 un libretto relativo ad una laurea quadriennale contava circa 20 esami. Oggi, in media, uno studente universitario supera questo traguardo dopo il secondo anno della propria triennale. Non possiamo giustificare questo aumento del numero di esami soltanto con corsi meno voluminosi. Dal punto di vista dei crediti lo sono, sicuramente, ma spesso non da quello dei contenuti. In generale, oggi si studia di più, punto. Per non parlare dell’obbligatorietà delle lingue o delle competenze informatiche, che sarebbe stata accolta come una forzatura enorme dagli studenti di quel tempo.
Addio mito del posto fisso: il mondo degli stage
Per ottenere uno stage curricolare di 6 mesi mi sono dovuta iscrivere a un master molto costoso. Non mi posso certo lamentare: adoro quello che faccio e soprattutto il rimborso spese è previsto e dignitoso. Qualcuno potrebbe pensare che sia scontato, ma non è assolutamente così.
Prima di trovare questo lavoro mi sono interfacciata con un’agenzia che pretendeva un trasferimento a Bruxelles e non prevedeva nessun compenso perché: “voi giovani dovete essere affamati”. Probabilmente nel vero senso della parola, visto che uno non avrebbe avuto i soldi neanche per fare la spesa. Leggermente meglio si è dimostrata una realtà milanese (città tra le più care in Italia per costo della vita) che offriva un rimborso spese pari neanche a 500 euro. E potrei andare avanti all’infinito.
Insomma, se non sei ricco di famiglia, o se non vuoi fare il cameriere di notte dopo aver fatto un turno di 8 ore in ufficio, non puoi permetterti di lavorare.
Ormai il meccanismo per cui se sei pronto a fare sacrifici e se ti prepari al meglio, studiando o lavorando, troverai sicuramente un posto che riconoscerà il tuo valore si è rotto. Il mito del posto fisso ha lasciato un grande vuoto colmatosi con lavori stagionali, finte collaborazioni in Partita IVA, contratti a tempo determinato, rimborsi spese e instabilità economica. E questo si può vedere nel privato come nel pubblico.
I dati ISTAT a maggio 2022
Complici la guerra in Ucraina, la crisi post pandemia e l’inflazione alle stelle, in Italia si sono persi quasi 100mila contratti a tempo indeterminato, soprattutto tra i giovani nella fascia 25-34 anni.
Secondo i dati ISTAT di maggio 2022 gli occupati in Italia sono scesi sotto quota 23 milioni, con un arretramento del tasso di occupazione al 59,8%. Il tasso di disoccupazione è sceso all’8,1%, ma questo è legato al fatto che sempre meno persone cercano lavoro: il tasso di inattività, infatti, è salito al 34,8%, a un livello leggermente superiore rispetto al periodo pre-pandemico. Sempre secondo gli stessi dati l’occupazione a maggio è diminuita dello 0,2%, con 49mila posti di lavoro in meno e questo riguarda sia gli uomini (-29mila) che le donne (-20mila).
Continuano a crescere invece i contratti a termine (+14mila). Ma ad aumentare più degli altri – dopo mesi di calo profondo – sono gli autonomi, che crescono di 33mila unità.
La Great Resignation
Ne siamo tutti figli, ma non lo sappiamo ancora. Al di là del percorso di studi la mole di lavoro richiesta è ormai parte di una generazione che era abituata a fare meno cose per più tempo e meglio pagata. Oggi la situazione si è ribaltata: una valanga di persone istruite ricopre posizioni retribuite
molto peggio rispetto a quelle dei blue collars. Non deve stupire, quindi, che una persona senza capitali ma con più conoscenze del proprio capo alla sua età decida di lasciare il proprio lavoro. Anche guadagnando meno, ma con più tempo per sé.
Dopo la pandemia questo fenomeno ha infatti preso piede in tutto il mondo. Le cause che portano a questa drastica decisione sono le più svariate: dal burnout, alla ricerca di un posto che preservi il benessere, al desiderio di poter avere la possibilità di gestire le giornate di lavoro difendendo il work-life balance.
Questa è la risposta di chi ha energie da incanalare, ma che non è più disposto a farlo in questo mercato del lavoro. Si è persa così la possibilità di sfruttare le capacità e le risorse dei più preparati in ambito lavorativo. E le conseguenze di tutto ciò non credo che tarderanno a palesarsi.
Quindi?
Questo quadro spiega perché i nostri progetti e prospettive siano ovviamente cambiate. Come per la nuova percezione della casa, anche per la nuova idea che abbiamo di lavoro vorrei offrire due spiegazioni:
- (narrazione negativa) il mercato del lavoro è sempre più saturo e le condizioni dei lavoratori sono generalmente sempre più precarie. Con l’avvento della digitalizzazione del lavoro le skills richieste sono sempre diverse e sempre crescenti, richiedendo una formazione costante dei lavoratori, senza che ci sia uno stipendio che cresca al crescere delle competenze.
- (narrazione positiva) ormai, con un mondo sempre più aperto e con possibilità sempre più a portata di mano, è difficile che l’ambizione sia ancora quella del posto fisso. Rimanere tutta la vita incollati alla stessa scrivania non fa più gola come un tempo. Esistono nuovi mestieri, sempre più dinamici, che stanno ridisegnando completamente il modo di lavorare. Si è inoltre maturata la consapevolezza di quanto sia importante bilanciare il tempo libero con quello lavorativo. Un’attenzione sempre crescente sulla salute mentale completa poi lo scenario.
Insomma, ci avevano detto “siate affamati, siate folli“, ma forse era il caso di aggiungere “siate pronti a reinventarvi costantemente“.