De umanizzazione: cos’è?
Per de-umanizzazione si intende il processo mentale tramite cui categorizziamo dei nostri simili come meno che umani. Nel linguaggio comune col termine “umano” intendiamo una serie di caratteristiche positive: caloroso, intelligente, buono.
In principio, però, la definizione di umano nasce per la sua contrapposizione all’animale. E i nostri coinquilini sono ritenuti privi di razionalità, auto controllo, sentimenti.
“Tutti gli uomini sono umani, ma alcuni sono più umani di altri”
Chiara Volpato, “Deumanizzazione”
Deumanizzando una persona, la escludiamo dalla categoria di umano: ma dove la collochiamo, quindi?
Ci sono diversi modi per de-umanizzare l’altro.
L’animalizzazione
Un modo ampiamente utilizzato dai Conquistadores nel continente americano per descrivere i nativi erano i paragoni col mondo animale. Definire intere popolazioni come bestie, animali e fiere, è stato nella storia strumentale all’oppressione e allo sfruttamento di intere comunità.
Benché oggi questa pratica verrebbe percepita dai più come estremamente offensiva, non è stata completamente sradicata. Sebbene sia meno esplicita, esiste ancora una forma di animalizzazione da parte di media e giornalisti: tuttora si attinge al campo semantico del mondo animale per descrivere chi è diverso da noi (sciame, gregge ecc.).
Si capisce: l’universo simbolico degli animali accompagna l’uomo sin dall’alba dei tempi (si pensi alle prime pitture rupestri rinvenute a Lascaux) e non ha sempre un connotato negativo.
Il mondo della politica, ad esempio, si rifà spesso al mondo animale, ovvero alle qualità che attribuiamo alle singole specie. Astuto come una volpe, forte come un leone, da Machiavelli in poi, l’uomo politico ideale prende in prestito virtù dagli animali.
Sarebbe interessante osservare come è cambiato l’universo simbolico associato al mondo animale, in base al momento e al luogo in cui ci troviamo. Per cui dare a una persona della tartaruga potrebbe indicarne la saggezza, ma anche la lentezza.
L’oggettivazione
Un’altra tecnica di de-umanizzazione è l’oggettivazione.
L’oggettivazione consiste nel ridurre l’altro ad un mero strumento per i propri fini: tutte le caratteristiche che compongono la sua personalità sono poste in secondo piano. Nella società odierna questo è un discorso che vale tanto per le persone viventi condizioni di schiavitù, quanto per le donne.
Con l’oggettivazione, si tende a “scomporre” il corpo e l’anima dell’altro, prendendo solo ciò che interessa e appiattendo la sua immagine a quella di uno strumento. Per le donne questa è una violenza subita quotidianamente in maniera più o meno sottile, a partire dagli sguardi oggettivanti che incrociano le nostre strade.
Ne deriva una conseguenza disturbante: le donne oggettivate sono inclini ad auto-oggettivarsi. Tramite il processo di auto-oggettivazione, adolescenti e donne incorrono in rischi per la propria salute fisica e mentale. L’auto-oggettivazione, come rilevato in diversi studi degli anni ’80 e ’90, aumenta significativamente le chances di soffrire di disturbi alimentari, di non usare precauzioni durante i rapporti sessuali e di allontanarsi dalla propria identità e potenziale. Le donne oggettivate hanno minore tempo ed energie per dedicarsi a hobbies, studi, passioni, poiché assorbite dall’analisi maniacale del proprio aspetto fisico. Una ricerca condotta nel 1999 ha rilevato che il 78% delle copertine delle riviste femminili prese in esame conteneva riferimenti all’aspetto fisico e circa un terzo di queste implicava diete e perdita del peso. Mentre le copertine dei magazines maschili presentavano all’80% inserti dedicati a divertimento e hobbies.
De umanizzazione meccanicistica
Questa forma di de-umanizzazione è stata utilizzata ampiamente negli anni ruggenti del primo capitalismo. Gli essere umani, trattati come esseri decerebrati, venivano messi a svolgere mansioni ripetitive e alienanti, per cui si annichiliva la loro umanità. Quando consideriamo le persone come macchine le priviamo qualità come lo spirito critico, l’originalità, la vitalità e l’emozionalità.
Questa tecnica veniva anche utilizzata, insieme ad altre, nelle descrizioni naziste degli ebrei. Questi venivano, infatti, dipinti come semi-automi, dediti al profitto e macchinosi, privi di sentimenti genuini e intelligenza critica.
Lo stesso valse per i soldati americani durante la Prima guerra mondiale: questi cominciarono ad essere ritratti come degli automi il cui viso di fondeva con l’elmetto.
I media e gli studi iconografici
Come scrive Chiara Volpato in Deumanizzazione, “le immagini aprono la strada a ciò che ancora non si può dire“.
I media hanno un’influenza enorme sul nostro modo di pensare e valutare ciò che ci succede attorno. Questi hanno un triplice potere: in primo luogo stabiliscono l’agenda, selezionando quali notizie trasporre. In secondo luogo, decidono quanto spazio lasciare alla notizia e quanto a lungo soffermarvisi, decretando, così, se seguirne e riportarne gli sviluppi o meno. Infine, e forse è l’aspetto più cruciale, i media sono difficilmente imparziali. Talvolta, i giudizi sono impliciti, ma non per questo non fanno capolino.
Negli anni dei totalitarismi, con la diffusione dei primi mass media, la propaganda ha giocato un ruolo cruciale nella “preparazione mentale” dei cittadini alle atrocità che la loro nazione avrebbe inflitto al nemico. La diffusione di immagini di ebrei ammassati in ghetti, coperti di stracci e infreddoliti, ha aperto la strada al biasimo delle vittime.
Oggi, invece, ogniqualvolta si parla di migranti e sbarchi, vediamo le stesse due o tre immagini, che ormai risultano facilmente digeribili.
Ci sarebbero due modi di de-sensibilizzarci alle tragedie. Da un lato, la censura, dall’altro, la normalizzazione di questi eventi, tramite l’esposizione ripetitiva a poche immagini selezionate fino all’abitudine. La scelta delle immagini da parte di chi fa informazione ha un impatto incredibile non solo sulla percezione dell’altro, ma anche sugli atteggiamenti che ne conseguono.
Come ri-umanizzare?
Le strategie per ri-conferire umanità all’altro sono molteplici, anche se come ricordava la sociologa Susan Opotow, questi processi si innescano molto più velocemente di quanto non si disinneschino. Sembra logico, ma non è scontato: in primo luogo è cruciale riconoscere il fenomeno, poiché solo armati di consapevolezza si può cambiare lo stato delle cose.
Un secondo proposito è quello di ri-conferire umanità all’altro ricordando la sua storia, il suo vissuto e la sua personalità, innalzandolo rispetto al ruolo di vittima e di emarginato depersonalizzato.
Se solo potessimo applicare la nostra innata empatia all’intera specie umana, riconoscendo la nostra stessa appartenenza, probabilmente la de-umanizzazione sarebbe un fenomeno molto più raro.