Ci sono sorrisi e sorrisi. C’è il sorriso che la gente comune si disegna addosso ogni giorno, e poi c’è il sorriso sgrammaticato e fuori dai bordi di Arthur Fleck.
Via la giacca dalla schiena torta. Su la maschera, luci sullo specchio. Davanti il baratro, dietro il carico sulle spalle che preme per farlo scendere giù di testa. La colata verde sul torace strizzato lo battezza.
Così il Joker di Todd Phillips nasce, dalle ceneri dello sconfitto, tra le pieghe gommose ai lati degli occhi, nel dente corto, appuntito.
Nasce un uomo sotto il sopracciglio scuro, che non deve più nascondere di essere pazzo ai normali che passeggiano sul pelo della città. Nasce nella sua risata, che non è allegria, ma un disturbo dolente.
L’oscura felicità
Per Arthur Fleck la felicità altro non è che il mostro più oscuro che lo tormenta.
Lui, “nato per far ridere”, dice sua mamma, eppure finito conciato da clown su un lurido marciapiede.
Lui, con il sogno di far lo stand-up comedian, ma diventato lo zimbello, guarda caso, del Re della Commedia.
Quella di Arthur è una risata strana, malata, disegnata come in un fumetto inquietante, ritratta da Phillips come nella migliore arte drammatica. “La risata non rispecchia necessariamente il mio stato d’animo”, è scritto su di un tesserino che porta in tasca.
Una risata per nascondersi
Una risata strozzata in gola, sinistra e stridula. Quel ghigno obliquo, di quello strazio del volto, di quella feritoia in grado inghiottire il caos del mondo con la stessa naturalezza con cui si liquiderebbe una barzelletta macabra che non fa ridere proprio nessuno.
Un rantolo che tiene insieme lo stupore e l’orrore dell’essere ancora vivo, i traumi di un bambino schizofrenico e mai cresciuto, avvolto in una maschera di laconica tristezza, e il sogno scriteriato di tramutare quella paralisi depressiva e monomaniacale nella smorfia del clown più sanguinario in circolazione.
La nascita di Joker
Il mondo di Joker gira su ingranaggi rugginosi che non portano luce ai piani bassi della città, là dove vivono i ratti giganti, la dimenticanza, la polvere e lo scuro denso.
Da ciò, Joker nasce, si eleva dall’ingiustizia subita per diventarne una ancora più grande. Male maggiore scaccia male minore. E il male diventa il bene.
Nel film di Todd si ribalta il tavolo da gioco. E il regista riesce bene a voltare le carte del mazzo, per mostrare l’altro colore, l’altro verso del ghirigoro. I buoni diventano il muro di gomma, la truppa del privilegio che non si sporca le mani e annaffia il putridume fino a vederlo nascere e radicarsi.
Dentro si sghignazza, fuori la città arde di rabbia. Ai piedi del clown c’è il popolo, affamato di considerazione, pronto a decapitare giusti e ingiusti.
Una banale forma di giustizia
L’antieroe diventa eroe decadente, macchiato, brutto sporco e poi anche cattivo, ma sempre condottiero.
Joker muove da una elementare forma di giustizia. Gentilezza pagata con gentilezza, indifferenza pagata con la morte. Non ci sono interstizi, non ci sono sfumature.
Arthur diventa Joker perché il sistema non funziona e non lo aiuta; Joker è un figlio a tutti gli effetti del marcio della società, oltre che un suo simbolo. Il passaggio successivo, la trasformazione e la compiaciuta incarnazione dell’anarchia stessa.
Il nostro lato preistorico
Il film è la rivincita nel sangue dei perdenti, dei reietti, che escono dai margini e agguantano la vendetta. Il clown diventa il sigillo del disturbo: il disagio naturale che nasce guardando qualcosa che ci è familiare ma angosciante allo stesso tempo, come un pagliaccio.
Joker, in fondo, si struttura dalle paure più antiche, quelle che abitano la nostra parte più preistorica. Si comporta in modo imprevedibile, sopporta, tollera tutto, sembra arreso e poi spara. Non ha rimorsi, spera quasi di averne, invece ha il suo bagaglio pesante e sa chi incolpare. Si riprende non la felicità, ma il sorriso sì.