Cos’è che più di tutto spaventa i bambini? Cos’è che molte volte segna le paure della nostra infanzia? La risposta a queste due domande crea il corpus narrativo del clown Pennywise, mostruoso protagonista di “It”. Una delle pietre miliari del genere horror dopo quasi 40 anni.
Rosso (sangue) di sera
Qual è il modo migliore di rappresentare le singole paure che ognuno di noi ha sviluppato nel corso della sua vita? Probabilmente elencarle tutte. Potrebbe essere stato questo il pensiero che 36 anni fa ha spinto il genio incompreso di Stephen King a creare un capolavoro letterario che ancora oggi rappresenta il trauma di un’intera generazione.
Affermazione per nulla fuori luogo, dal momento che il terrore e la repulsione che alcuni di noi ancora oggi provano nel vedere qualsiasi tipo di clown è frutto di una passeggiata serale nel cuore del Colorado. Nella cittadina di Boulder il nostro autore, di ritorno dal meccanico, si ritrova a dover attraversare un ponticello di legno molto particolare. L’atmosfera è cupa e terrificante. Ed è proprio in quel momento che la mente lo riporta ad una delle storie che conosce fin da bambino: la favola norvegese dei tre capretti che devono superare un malefico troll.
La straordinaria fantasia di King fa il resto: nell’autunno del 1981 prende vita Pennywise, protagonista del romanzo “It”, che uscirà circa 5 anni dopo, in seguito ad un’infinita rielaborazione. Un racconto horror, ma anche di avventura e di formazione. La mitica storia dei Perdenti. Sette ragazzi che vivono nella città di Derry, nel Maine, e che si ritrovano a combattere le loro peggiori paure, nel tentativo di non finire in pasto ad una creatura divoratrice “di mondi e di bambini”.
Chi ha paura del buio?
L’infanzia è uno dei temi centrali della storia di questo clown. Ed è straordinario il modo in cui l’autore riesce a renderla vivida e palpabile. Forse perchè, scavando nella vita dei suoi personaggi, egli in realtà rimesta nel torbido nell’esperienza personale di ognuno di noi. La lingua è di grande aiuto allo scrittore americano, anche quella volgarmente banale delle parolacce che un ragazzino di 10 anni inizia a conoscere ma non sa gestire. O quella che descrive gli approcci al fumo e al sesso di un quattordicenne. Ma anche, purtroppo, quella dei figli che subiscono violenza da parte dei propri genitori, come nel caso della parte femminile del gruppo, la famosa Beverly Marsh.
Sono le varie sfumature della vita di ognuno di noi che creano le nostre più profonde paure. Dal ragazzino grassottello che vive nel terrore dei bulli che lo vogliono scannare a quello balbuziente preso in giro per il suo modo di parlare. Non è un caso se il romanzo inizia con la paura ancestrale di qualsiasi ragazzino di sei anni. A quell’età scendere nell’umida cantina di casa, magari nell’oscurità più totale a causa di una lampadina fulminata, costituisce una prova di coraggio non indifferente. Perché non si sa mai cosa si può annidare nell’ombra.
In principio era Georgie
E nell’ombra si annida il male. Pennywise, “il clown danzante” come ama presentarsi egli stesso nell’adattamento cinematografico del 1990 di “It”, con protagonista un superbo Tim Curry. It non colpisce subito, sarebbe troppo semplice, aspetta che Georgie, il fratello minore di uno dei protagonisti, sia lontano da casa, a giocare con un altro simbolo dell’infanzia, la barchetta di carta che il suo amato Bill ha appena creato per lui. Sul ciglio della strada la paura si materializza ed il clown da incubo miete le sue prime vittime.
Il terrore che sarebbe durato per ventotto anni, ma forse anche di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia.
L’incipit di “It”
La straordinaria polimorfia del signor P.
Ovviamente Pennywise è solo una delle tante forme che It può assumere. Perchè It non è una paura, è LA paura stessa, che può avere l’aspetto di un bullo sadico quanto di un lupo mannaro. E attraverso questo gioco multiforme It mangia le persone. Fisicamente, certo, (non vorremmo sminuire certo il mastodontico lavoro del regista Tommy Lee Wallace) ma anche e soprattutto psicologicamente. La paura non risiede fuori di noi, ma dentro. Una massima banale che l’autore ha saputo applicare alle oltre mille pagine del suo romanzo.
E It, se sarai abbastanza debole da cedere alla sua forza, ti possiederà attraverso la parte più oscura di te stesso. Le discussioni sulle origini presunte o rivelate della creatura, un universo parallelo da dove essa sarebbe piovuta sulla terra milioni di anni fa, possono essere utili ma fanno più che altro da sfondo. In questo senso l’autore assimila e rielabora alla perfezione la lezione di H.P. Lovecraft, lo scrittore che, insieme ad Edgar Allan Poe, ha fatto saltare sulla sedia il pubblico dei lettori numerose volte con i suoi racconti.
Derry, my dear
Anche l’ambientazione la fa da padrone nel romanzo di King. La città di Derry infatti trasuda tutta la malvagità di It, il vero padrone di questo luogo dimenticato da dio e dagli uomini, ma non da Pennywise: il clown, infatti, alterna un ciclo di sonno di circa 28 anni ad una veglia di alcune settimane, nelle quali la percentuale di omicidi di ragazzi e bambini aumenta all’incirca di 16 volte.
Questo eterno ritorno costituisce la base per la seconda parte del romanzo. Non basta vincere la paura una sola volta per scacciarla del tutto. La vittoria dei bambini nei confronti della creatura, con la quale si concludono le peripezie della prima metà del racconto, è infatti effimera. Occorre tornare dopo alcuni anni per completare il lavoro.
In questo secondo blocco i ragazzi, ormai adulti e con una vita propria nelle varie località degli States, hanno dimenticato tutto quello che riguarda le vicende di Derry. Una cosa normalissima: quando cresce la gente relega le paure infantili in un angolo della propria mente. Ed esse rimangono inerti come sabbia fino al momento in cui non soffia un vento in grado di spostarla.
Ciak, azione, jackpot
Il controllo dell’autore sulla linea temporale è qualcosa di assolutamente eccezionale: i flashback e le esperienze presenti sono un tutt’uno difficile da separare. La potenza della scrittura di King in “It” si riversa in maniera magistrale nel personaggio di Pennywise.
Portare sul piccolo e grande schermo questa efficacia narrativa non è stata un’impresa da poco: la miniserie televisiva del 1990 è stata fonte di grande dibattito anche se, vista la difficoltà del progetto, può essere considerata un buon compromesso. Molto più della versione cinematografica del 2017, che ha riportato in auge dopo quasi 20 anni il lavoro di King tramite l’interpretazione (per la verità molto più apprezzata dell’opera in sé) di Bill Skarsgard. Questi due film (la seconda parte è del 2019) hanno dimostrato di avere infatti un’impronta troppo commerciale e di avvicinarsi troppo ai gusti dell’americano medio per riuscire a mettere in luce la potenza psicologica del racconto originale.
Un merito, tuttavia, a questo recente lavoro va dato. Esso è infatti riuscito a far conoscere la figura di It e del pagliaccio Pennywise ad una nuova generazione di lettori, i quali saranno deliziati nel vedere realizzate tutte le loro peggiori paure. Il bello della paura è che non ha tempo. Proprio per questo il racconto di King si presta a delle regolari rivisitazioni e riflessioni. Magari non con un ciclo di 28 anni.