ʻAli Bāgheri Kanī, capo-delegazione per il nucleare e vice-ministro degli esteri, ha annunciato che l’Iran ha intenzione di riprendere a breve i colloqui per il ripristino dell’Accordo sul Nucleare iraniano del 2015. La decisione arriva al termine di una serie di colloqui a Bruxelles con il capo della delegazione dell’Unione Europea. Non era una presa di posizione scontata. I colloqui si erano interrotti a giugno, dopo l’elezione del nuovo presidente ultra-conservatore Ibrahīm Ra’īsī. I nuovi vertici iraniani, fortemente anti-occidentali e anti-americani, rischiavano di rappresentare un grave ostacolo al recupero dell’accordo. E ciò proprio nel momento in cui il cambio di leadership statunitense di gennaio apriva nuove porte per una nuova intesa. La diplomazia iranico-americana sembrava essere vittima di un paradosso elettorale.
Dal 2015, anno della firma, Washington ha avuto per quattro anni un presidente ultraconservatore ed esplicitamente anti-iraniano. Appena realizzatosi il passaggio a un successore più aperto e internazionalista, l’Iran ha sostituito il suo ex-presidente moderato Rūḥānī con un successore reazionario e anti-globalista. Eppure gli otto mesi in cui le leadership di Biden e Rūḥānī sono convissute potrebbero aver dato luogo a conseguenze importanti. Impossibile ricucire un accordo in così poco tempo, certo. Ma la timida ripresa dei colloqui ha dato il via a una nuova fase della storia diplomatica tra USA e Iran. Ora Teheran, pur con l’avvenuto cambio del quadro dirigenziale, rimane disponibile a mantenere questa linea.
Breve storia dell’Accordo sul Nucleare iraniano
Il JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) fu firmato a Vienna il 14 luglio 2015 da Iran, Unione Europea e i cosiddetti P5+1: i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU (USA, Regno Unito, Francia, Russia e Cina) più la Germania. Esso rappresentava l’accordo quadro definitivo che andava a completare il precedente Piano Congiunto P5 + Iran del 2013. Con questo accordo l’Iran si impegnava a:
- Eliminare le sue riserve di uranio a medio arricchimento.
- Tagliare del 98% le sue riserve di uranio a basso arricchimento.
- Ridurre di 2/3 le sue centrifughe a gas per un periodo di tredici anni.
- Arricchire l’uranio solo fino al 3,67% per i quindici anni successivi all’Accordo.
- Non costruire nuovi reattori nucleari ad acqua pesante.
- Limitare l’arricchimento dell’uranio a un singolo impianto, e convertire gli altri.
- Garantire il libero accesso degli ispettori dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica).
Ovviamente, non erano impegni presi a caso. Ciascuno di questi punti rappresentava un modo per tenere a bada l’eventuale proliferazione nucleare iraniana, vero obiettivo dei negoziatori dei P5 e dell’Unione Europea.
Le ragioni del nucleare iraniano
Il Trattato di Non-Proliferazione Nucleare del 1968 vieta a qualunque paese firmatario (e l’Iran è tra questi) di intraprendere politiche e strategie orientate all’implementazione del nucleare militare. In tal senso, Teheran non appariva particolarmente degna di fiducia. Nel 2007 le Nazioni Unite le avevano imposto, con la Risoluzione 1747, gravi sanzioni economiche a seguito della scoperta internazionale di un “progetto nucleare iraniano” attivo già da vent’anni. L’Iran sosteneva che l’unico obiettivo fosse quello di costruire impianti per il nucleare civile (cioè, come fonte di energia).
Il fatto che, in quegli anni, l’allora presidente Aḥmadīnejād minacciasse di distruggere Israele con l’arma atomica, non deponeva però a favore dei nobili intenti. Oltretutto, la Repubblica Islamica detiene giganteschi giacimenti di gas naturale e di petrolio, e a più di un occhio pareva difficile ridurre la costruzione di migliaia di impianti nucleari al solo impiego civile. In questo senso però, la linea di soglia tra l’uso civile e l’uso militare è estremamente sfumata. Non è sempre chiara quale sia la direzione intrapresa da un paese. Per capirne le ragioni, una piccola parentesi scientifica.
Arricchire l’uranio: perché è così importante?
I sette punti dell’Accordo pongono una particolare enfasi sul limitare l’arricchimento dell’uranio. Per quale motivo? E cosa significa “arricchire l’uranio”? L’uranio arricchito è una miscela di isotopi dell’uranio che presenta una più alta concentrazione dell’isotopo 235U, unico in grado di sostenere la fissione nucleare. L’uranio “normale”, estratto dalle miniere, è costituito quasi unicamente dall’isotopo 238U, e il 235U figura solo per lo 0,7 per mille. Tramite uno specifico procedimento, questo uranio si può “arricchire” dell’isotopo 235U, a diverse percentuali. L’uranio a basso arricchimento, cioè quello definito “reactor-grade”, ha tra il 3 e il 5% di 235U. Quello a medio arricchimento arriva fino al 20%, sopra di parla di alto arricchimento. Sopra l’85%, si raggiunge il livello “weapon-grade”, cioè utilizzabile per costruire ordigni nucleari. Questo procedimento si attua grazie alle centrifughe a gas (punto 3 dell’Accordo).
In generale comunque, una soglia accettata di distinzione tra l’uso civile e l’uso militare è quella del 5% di arricchimento. Questo perché posizionarsi al di sopra di essa porta al di fuori della soglia “reactor-grade”, cioè quella già da sola necessaria per la produzione di energia. Un ulteriore arricchimento sembrerebbe giustificato solo da altri tipi di impieghi. Sotto questa luce, si può capire meglio la soglia imposta all’Iran del 3,67%, ben al di sotto del 5%.
Gli impegni della controparte
In cambio, gli altri firmatari si impegnarono a cancellare le sanzioni economiche che imponevano all’Iran. Queste erano attive, a livello di Nazioni Unite, dal 2007, con la già citata Risoluzione 1747, e prevedevano un embargo totale su armi e assistenza finanziaria, oltre a varie restrizioni mirate contro individui coinvolti nel programma. Ad esse si sommavano le sanzioni singole dei vari paesi, con gli USA in prima linea: la storia delle sanzioni americane all’Iran risale alla Rivoluzione islamica del 1979. Stop al nucleare iraniano militare da un lato, stop alle sanzioni economiche dall’alto: un patto all’apparenza solido e conveniente. Di più: si trattava di un accordo storico anche nell’ottica della storia diplomatica. L’Iran, grande paria internazionale degli ultimi quarant’anni, veniva riammesso con enfasi nel quadro delle relazioni internazionali positive, pacifiche e costruttive.
Dopo il 2015: Trump e il nuovo approccio sul nucleare iraniano
L’elezione di Trump nel 2016 cambiò in modo decisivo il quadro delle relazioni tra i due paesi. Gli Stati Uniti si riorientarono in modo deciso verso l’Arabia Saudita e recuperarono la narrazione dell’ Iran quale “rogue state” e nemico degli USA. Nel maggio 2015, su richiesta di Israele, Washington si ritirò dall’Accordo e reintrodusse le sanzioni. L’idea era quella di mettere pressione a Teheran sulla questione siriana, yemenita e del sostegno a Hizballah. I provvedimenti americani spaziavano in ogni ambito: contro individui, petrolio, banche, dal 2020 anche cibo e medicinali. Addirittura, svilupparono un piano di sanzioni indirette potenzialmente devastanti per l’economia iraniana: indirizzate cioè a qualunque azienda, banca o impresa che continuasse ad intrattenere rapporti commerciali o d’impresa con Teheran.
L’uscita statunitense dall’Accordo era unilaterale e non dovuta a una precedente inadempienza della Repubblica Islamica. Questo meccanismo creò rapidamente in Iran un senso di profonda ingiustizia e indebolì la leadership moderata che tanto si era spesa in favore dell’accordo. Gli anni successivi furono caratterizzati dall’escalation. Gli USA inasprivano le sanzioni, l’Iran rispondeva alzando i livelli di arricchimento dell’uranio. Nel luglio 2019 la soglia fu portata al 5%. Dopo l’attentato contro Sulīmānī, l’Iran rinnegò la validità di una soglia da rispettare. Dopo l’attentato del Mossad contro lo scienziato Fakrizadeh, la soglia fu alzata al 20% (al limite degli “alti livelli di arricchimento”).
Biden: l’Iran come interlocutore
L’elezione di Biden ha però nuovamente cambiato lo scenario. Il neo-presidente già a febbraio dichiarava la disponibilità statunitense a rientrare nell’Accordo, previa iniziale ritorno iraniano alla soglia di arricchimento del 3,67%. Teheran risposte ribaltando il quadro: gli USA sarebbero dovuti rientrare nel quadro senza pretese, essendone usciti senza ragione. Solo a quel punto, l’Iran avrebbe ricominciato ad adeguarsi ai parametri. Una questione di principio all’apparenza, di non impossibile risoluzione. A febbraio si trovò l’accordo per riportare in Iran, pur con libertà di mandato minori, gli ispettori dell’Agenzia per l’Energia Atomica. Una nuova battuta d’arresto si ebbe in aprile, a seguito dell’attentato israeliano contro la centrale nucleare di Natanz. L’arricchimento dell’uranio venne portato al 60%, una cifra considerevole e pericolosamente vicina a quella dell’85% necessario per la costruzione dell’arma atomica.
Il futuro dell’Accordo P5-Iran
Il cambio dei quadri iraniani durante l’estate ha imposto una nuova, momentanea battuta d’arresto al processo. Ciò dà, di conseguenza, ragione ai vecchi critici dell’operato di Trump: la politica statunitense, così aggressiva verso una versione moderata dell’Iran, ha solo favorito l’emergere di una nuova versione più reazionaria e anti-occidentale. I moderati sono stati sconfitti alle elezioni e delegittimati dai vertici religiosi del paese. E ciò rende molto più difficoltoso il processo diplomatico.
Il fatto economico tuttavia rimane: conservatrice o meno, l’Iran soffre terribilmente a causa delle presenti sanzioni e deve trovare una strada alternativa. E questa strada non può che essere la ripresa del dialogo con gli americani, tanto più che questi ultimi sono ora rappresentati dall’Amministrazione Biden. Le ultime notizie sembrano andare proprio verso questa direzione, coi negoziati che dovrebbero ricominciare verso fine novembre. Il percorso è accidentato ma non si può non notare come entrambe le parti abbiano più che concrete ragioni per raggiungere un accordo. La composizione del nuovo governo di Teheran non aiuta ma potrebbe non essere un ostacolo insormontabile.
Obiettivi strategici dell’Iran relativi al programma nucleare
L’intero progetto nucleare iraniano ha contorni estremamente sfumati per quanto riguarda obiettivi, scopi e modalità. Si vuole davvero arrivare all’arma nucleare? Dipende dai momenti storici e da cosa c’è sul piatto come contropartita. L’Iran si è già dimostrata pronta una volta nel mettere da parte le proprie aspirazioni di potenza nucleare in cambio del reintegro nel sistema internazionale (e di cospicui e tangibili vantaggi economici). Non è un caso che lo “spettro della bomba” riappaia sempre nei momenti di crisi e tensione con l’Occidente (o con Israele). Più che una reale aspirazione, il nucleare per l’Iran sembra sempre di più un’arma politica da utilizzare per farsi ascoltare, per minacciare, per ottenere o per negoziare.
Il ragionamento seguito non è dissimile da quello che, qualche anno fa, adottava la Corea del Nord: armarsi per negoziare meglio, armarsi per minacciare meglio, e una volta riconosciuti come potenziale minaccia e “nobilitati” al dialogo con l’Occidente, mettere sul piatto le proprie criticità in cambio di vantaggi politici, economici e diplomatici. Certo è che l’Occidente aveva già superato questa “soglia diplomatica” con Teheran, nel 2015. Il fatto che oggi, nel 2021, ci si emozioni (giustamente!) per una paventata ripresa delle discussioni preliminari, è quantomeno bizzarro. Ma può far riflettere su quanto dannose possano essere certe politiche sconsiderate e certi atteggiamenti che, nel campo della diplomazia, non dovrebbero avere diritto di cittadinanza.