Nelle rappresentazioni della donna nell’arte e nelle storie antiche spesso sono presenti fiori e piante, alcuni dai poteri sovrannaturali, altri il risultato di maledizioni e amori sofferti, la maggior parte simbolo di bellezza e fragilità. Vorrei soffermarmi su questi ultimi due concetti, accompagnando alla lettura delle opere il significato dei fiori che vi vengono rappresentati. Sarà forse in questo modo possibile ritrovare nella nostra cultura le stesse associazioni di idee che ci portiamo dietro dalla classicità, ovvero quell’immaginario collettivo che continua a proporci la donna-fiore e l’uomo-giardiniere.
Tutti sanno che i fiori annunciano la primavera e la fertilità della natura, eppure anche il fiore più gioioso nasconde spesso un passato di sofferenze. Sono storie maledette che ci lasciano con un nodo alla gola e con una sensazione strana che sembra unire serenità e malinconia; il protagonista infatti non potrà forse più parlare o non potrà più muoversi ma è comunque un bellissimo fiore e questo ci basta per considerarlo un lieto fine.
Il papavero, la donna, l’oblio
Il papavero rientra nella categoria delle piante narcotiche per le proprietà soporifere che caratterizzano una delle sue tipologie. Sappiamo inoltre che i Greci erano soliti rappresentare il sonno (Ύπνος), la morte (θάνατος) e la notte (Νύξ) con una corona di papaveri sulla testa; proprio per questo, nel linguaggio dei fiori il papavero rappresenta l’oblio, la noia e la pigrizia e in arte viene associato alla donna fatale. Probabilmente influenzati dai famosi papaveri di Monet, il loro rosso sgargiante, la loro leggerezza e semplicità ci farebbero pensare a tutt’altro.
I papaveri nell’arte
Il dipinto nel quale si manifesta la vera natura del papavero è il quadro del pittore preraffaellita Dante Gabriel Rossetti intitolato “Sybilla palmifera“. In quest’opera d’arte la donna è circondata dai fiori (viene definita “portatrice di palma”) e rappresenta la personificazione dell’amore spirituale. La carica simbolica del dipinto è molto forte: a sinistra si vede la testa di un amorino bendato scolpita nel marmo e sormontata da una corona di rose, a destra la scultura di un teschio e una ghirlanda di papaveri. Da una parte l’amore e dall’altra la morte, con l’enigma centrale del bassorilievo sulla destra raffigurante una sfinge (figura enigmatica e mortale).
In virtù delle proprietà attribuite al papavero, è difficile smentire il collegamento che il pittore praghese Alfons Mucha inserì nel suo manifesto pubblicitario in stile Art Nouveau dedicata alla birra Mosa: Bière de la Meuse (1897). La donna ha uno sguardo languido e assorto, con una mano regge un boccale di birra e non si cura della quantità di schiuma che ne fuoriesce. Le dita dell’altra mano sono piegate sulla guancia e il mignolo è appoggiato sul labbro inferiore. La testa è ornata da spighe d’orzo, luppoli verdi, margherite, fiori di campo blu e ovviamente i papaveri, qui più che mai simbolo di oblio e dell’abbandono ai fumi dell’alcol.
Il Girasole: un fiore impazzito d’amore
La leggenda di Clizia e del Girasole viene raccontata da Ovidio nelle Metamorfosi. È però prima necessaria una precisazione circa il nome del fiore in questione: con Eliotropio si intende qualsiasi fiore capace di orientarsi verso il sole. Gli antichi non avrebbero mai potuto vedere un girasole dato che la pianta arrivò in Europa solo nel XVI secolo. Secondo la leggenda, una ninfa di nome Clizia si era follemente innamorata del dio Apollo, che si univa a lei ogni giorno. Il dio del Sole, però, in quel periodo aveva notato anche Leucotòe, una bellissima giovane figlia di un re; a quel punto Clizia riceveva sempre meno visite da parte di Apollo e, invidiosa della ragazza, decise di vendicarsi.
La ninfa accusò Leucotòe di aver rotto i voti di castità imposti prima del matrimonio seducendo Apollo. Il dio in realtà possedeva la giovane contro la sua volontà, ma il padre/re credette alle parole di Clizia e fece sotterrare viva la figlia che, grazie alla pietà degli dèi, diede vita alla pianta dell’incenso. Furioso e disperato per la sua perdita, il Sole abbandonò definitivamente la ninfa mentre Clizia, piena di dolore, rimase per nove giorni in piedi in mezzo a un campo nutrendosi solo di rugiada e di lacrime. L’unica a muoversi era la sua testa, che da Est a Ovest seguiva il carro del Sole. Gli dèi provarono pietà per lei e la trasformarono in Eliotropio, così da poter seguire per sempre il sole.
Le sue membra, narrano, al suolo si radicano
Ovidio, Metamorfosi
e per il pallore in parte in erba esangue si mutarono;
un’altra parte è invece rossastra,
e un fiore viola il volto ne ricopre.
Benché trattenuta dalla radice, al Sole sempre si volge
e pur così mutata amor gli serba.
Il Girasole dell’ubbidienza
Il concetto di ubbidienza viene perfezionato nel Seicento, quando il girasole appare per la prima volta nelle tele fiamminghe e francesi dedicate ai rispettivi sovrani: l’uomo recide il Girasole dal lungo gambo per portarlo in dono al proprio re, ricordando sempre a quest’ultimo e a se stesso chi è il sole verso il quale volge il suo sguardo e abbassa la testa. Il mito di Clizia viene rappresentato da Charles de La Fosse nel dipinto “Clizia si trasforma in girasole” (1688): la scena si svolge in un paesaggio roccioso nella quale troviamo la ninfa che si strugge per la fuga di Apollo.
La divinità viene rappresentata di spalle sul suo carro mentre volge un ultimo sguardo verso la ninfa. Tutto intorno un vortice di nuvole scure lo accompagna. Il sole è il protagonista del quadro, irradia il dipinto di una luce calda ma tersa e malinconica, all’ombra della quale si celano alcuni spettatori incuriositi. I girasoli, pallidi, tetri e disorientati, fanno capolino dalle spalle di una ninfa indebolita, spossata dal lungo pianto, dai capelli biondi come i petali dei fiori. Il tormento causato da Apollo la eleva a emblema di fedeltà e insieme di falsità per le dichiarazioni relative a Leucotòe. Messaggi poco rassicuranti e bizzarri, se associati all’ilarità del fiore.