Che sia personale o di gregge, naturale o indotta, mai come oggi si parla di immunità. Se all’inizio di questa settimana ha fatto il suo debutto Immuni, l’attesa applicazione per semplificare il contact tracing e ricevere avvisi nel caso in cui si sia entrati in contatto con persone poi risultate positive al Covid-19, già da settimane alcuni governatori hanno paventato (anche se in molti casi ritrattato) la possibilità di vincolare l’ingresso nelle Regioni al rilascio di una patente di immunità, una sorta di certificato che attesti l’eventuale avvenuta immunizzazione al virus.
Anche al di fuori dell’ambito prettamente biologico, le parti sociali (Confindustria e Confcommercio) hanno a lungo spinto per una particolare forma di immunità (lo scudo penale) contro eventuali contagi sul posto di lavoro. L’importanza di questa forma di immunizzazione giuridica era già da tempo al centro del dibattito pubblico: lo dimostra la decisione, risalente all’autunno scorso, della multinazionale indo-francese ArcelorMittal di lasciare l’acciaieria ex Ilva di Taranto dopo l’abolizione, con un emendamento al decreto Salva Imprese, dello scudo penale di cui godevano gli amministratori nel realizzare il piano ambientale con cui lo stabilimento dovrebbe essere messo a norma rispetto alle leggi sull’inquinamento.
Ma per capire da dove è cominciato questo processo di immunizzazione, dobbiamo prima chiederci cosa significhi immunità. Come ricordato da Roberto Esposito nel suo fondamentale Immunitas. Protezione e negazione della vita, questo termine ha assunto un particolare rilievo a partire dal suo rapporto negativo con il concetto di comunità: se risaliamo all’etimologia dei due termini (communitas e immunitas), vediamo che entrambi hanno una radice comune (munus) il cui significato è compito, obbligo, ma anche dono. Ne consegue che il munus altro non è che una sorta di legge del dono e quindi della cura reciproca: ecco perché se i membri della communitas sono vincolati dalla legge dell’aiuto e dello scambio reciproco, l’immunitas implica un’esenzione da questo obbligo e rende l’individuo non necessariamente obbligato a ciò verso cui tutti gli altri sono vincolati.
Dal momento che la communitas è qualcosa che implica dei rischi di conflitto e di contagio, l’immunitas, rinunciando a questa circolazione del dono, si mette al riparo anche dai rischi impliciti in ogni forma di comunità. L’immunizzazione protegge quindi dai rischi ed elimina l’obbligo del munus comune, mette l’individuo in una condizione particolare rispetto alla comunità perché lo salvaguarda rispetto agli obblighi sociali che la comunità stessa richiede.
Questo paradigma nasce con la storia umana: non ci sarebbe stata una civiltà se la vita non si fosse fin dall’inizio autoprotetta. Ma c’è stata una fase, da identificarsi con la modernità, in cui questa procedura immunitaria ha assunto un rilievo crescente. Secondo Esposito, la modernità stessa può essere interpretata come una forma di immunizzazione, a causa della crescente esigenza di proteggersi dai rischi che nascono alla fine dell’età medievale. Nel momento in cui, con lo scoppio delle guerre di religione che rompono l’unità della Christianitas, vengono meno le protezioni teologiche di cui gli uomini avevano goduto fino a quel momento, la percezione del rischio si fa sempre più forte e determina la creazione di quello che in Hobbes è un grande dispositivo immunitario di protezione e conservazione della vita: lo Stato.
Nella società moderna, come il mercato rapporta le persone nella forma della competizione, così gli uomini si rapportano nella forma della dissociazione. Tutte le categorie politiche moderne (sovranità, proprietà, libertà), per certi versi, risentono di questo elemento immunitario e sono definite in negativo dal contrasto col proprio contrario: la sovranità è la non pluralità o il non conflitto, la proprietà è la non comunità e la libertà (nella sua accezione moderna di categoria negativa) è la non necessità. Alla luce di questo modello, capiamo che è l’intero apparato mentale della modernità a procedere attraverso una forma negativa che trova la sua massima esemplificazione nel concetto di immunità.
Questo processo di immunizzazione diventa sempre più cogente nel momento in cui nasce la scienza biologica e, contestualmente, la biopolitica, ovvero quel dispositivo di governo in cui si fondono vita biologica e prassi politica. L’immunità si situa all’incrocio dei vari linguaggi (sociali, medici, politici) e diventa il perno di rotazione attorno a cui si muove la nostra esperienza reale e immaginaria. Ne è un esempio la diffusione, negli anni Ottanta, del virus dell’HIV, il quale è stato fronteggiato con una sorta di grande disciplinamento non solo medico-profilattico, ma anche sociale.
In tutti i linguaggi contemporanei l’immunizzazione è stata percepita come un’esigenza sempre più forte. Come testimoniato ad esempio dall’influenza esercitata dagli hacker russi sull’elezione di Donald Trump, anche in ambito informatico si è incominciato a parlare di attacchi virali: nel combattere quella che è ormai una hybrid warfare, la quale consiste nell’impiego di strumenti non solo militari al fine di destabilizzare le opinioni pubbliche da cui si intende trarre un profitto politico, gli Stati hanno speso ingenti cifre proprio al fine di immunizzarsi da questi attacchi informatici.
Allo stesso modo l’immigrazione è stata letta e interpretata, da coloro che vi si oppongono, in termini virali: in questo senso, l’immigrato costituirebbe un rischio biologico per la preservazione dell’etnia del Paese d’arrivo. Insomma, da qualsiasi lato si guardi alla contemporaneità il problema fondamentale pare essere la prevenzione dal contagio.
Le dinamiche di globalizzazione, produttrici di una communitas mondiale, hanno provocato un collaterale effetto immunitario: a partire dal crollo del muro di Berlino sono nati tanti piccoli muri, circondati da fili spinati, capaci di esasperare quella paura originaria di essere toccati studiata da Elias Canetti. L’esperienza dell’essere toccati penetra nei confini del nostro corpo, cioè della nostra identità, ed è avvertita come un rischio. In questo senso il confine è diventato, come spiegato da Carl Schmitt, il luogo di delimitazione tra amico e nemico, tra Io e Altro, tra inclusione ed esclusione. Dopo trent’anni di sfrenata globalizzazione siamo oggi all’apice di questo processo, a conferma di come l’immunizzazione fosse diventata una forma di vita già prima della pandemia.
Se l’immunizzazione, senza la quale il corpo sociale imploderebbe, è da sempre una caratteristica di ogni comunità storica unita nella forma della divisione, la sfida per l’oggi è trovare un equilibrio tra questi due poli.
Oggi l’immunizzazione necessaria a proteggere la vita rischia di negare quella vita stessa. Al fine di proteggerla, essa tende ad eliminare o ridurre le forme di socialità che sono altrettanto necessarie alla nostra vita: quando quindi l’immunità va oltre un certo limite, si rischia che la tutela della nuda vita (zoé) sacrifichi la vita di relazione (bios).
Questa struttura — che è solo apparentemente contraddittoria ma, come dimostrato dal monumentale lavoro di Giorgio Agamben, attraversa tutta la tradizione politica occidentale fino a sfociare nella modernità come sua massima espressione — trova un suo corrispettivo nella vaccinazione, la procedura più tipica dell’immunità: vaccinare non significa eliminare il male, ma inserire nel corpo un frammento sostenibile di quel male al fine di non assumerlo nella sua forma maggiore.
Sulla scorta del pensiero greco che, avendo una forte sensibilità nei confronti dell’ambivalenza, con il termine farmakon indicava sia la cura che il veleno, il timore è che questo meccanismo di ricarica tra minaccia e protezione possa sfuggirci di mano: lo stesso Covid-19 (come sottolineato dall’epidemiologo Alberto Mantovani ne Il fuoco interiore, pubblicato poche settimane fa) danneggia i polmoni proprio a causa del sistema immunitario che, per difendersi dall’ospite estraneo, produce talmente tanti anticorpi da incendiarli.
Se infatti ci spostiamo nell’ambito della geopolitica, negli ultimi anni abbiamo tragicamente assistito a quello che già nel 1996 Samuel Huntington aveva definito uno scontro di civiltà: le fonti di conflitto e le grandi divisioni dell’umanità hanno assunto una natura culturale e seguono delle linee di faglia tracciate tra le diverse civiltà del pianeta. Quelli che erano monoteismi religiosi si sono trasformati in monoteismi politici — già Schmitt aveva sottolineato come i concetti della teoria politica moderna fossero concetti teologici secolarizzati: da un unico Dio si passa ad un unico popolo ed un unico Stato — che cercano di immunizzarsi vicendevolmente nello spazio globale.
Uno scontro tra monoteismi, tuttavia, non ha grandi chance di sopravvivenza. E se non è possibile tornare a quello che i politologi chiamano modello Vestfalia, ovvero uno scenario popolato da Stati nazionali che fanno i propri interessi, competitivi e auto-escludenti, non è nemmeno più possibile accettare supinamente l’esistenza di una comunità (un villaggio lo aveva definito in tempi non sospetti Marshall McLuhan) globale che funga da vettore per i movimenti indisturbati del capitale. Ecco perché è necessario trovare una terza via per uscire dalla dialettica tra sovranismo e globalizzazione: non una globalizzazione incontrollata, né un mondo fatto da pezzi sovrani che si scontrano.
Nell’ultimo decennio, infine, anche sul piano della politica interna la democrazia ha dovuto introiettare un elemento immunitario in risposta a quello che è stato definito come il virus del populismo: si tratta, anche in questo caso, di una questione di equilibrio tra immunizzazione e comunità poiché una democrazia che sopprime ogni elemento populista, fino a minacciare la presenza stessa del popolo, diventerebbe (e in alcuni casi è diventata) una democrazia puramente tecnico-elitista.
In questo senso la democrazia è un’istituzione e, in quanto tale, non può essere pensata come un blocco compatto ma come la forma politica di un conflitto produttivo e non distruttivo. La sfida per il futuro è quella, da una parte, di mantenere la presenza del conflitto, un evento necessario alla democrazia e, dall’altra, di mobilitarla, strapparla al suo significato statico, conservativo, e persino repressivo, per pensarla come verbo e prassi democratica.
Secondo quello che era anche il paradigma eracliteo, oggi più che mai c’è il bisogno di ricostruire un equilibrio tra communitas e immunitas, di pensare ad un’unità che tenga insieme le sue differenze.