Lo definirei capitalismo rosa, il macro e micro universo che Greta Gerwig costruisce con il suo film. Barbie è plastica dentro cartone, ma anche pensiero di morte ed emancipazione. Margot Robbie veste i panni della Barbie stereotipo, la matrice di tutte le matrici; Ryan Gosling è un Ken alle prese con il suo giocattolo nuovo: il patriarcato. Tematiche forti alleggerite e colorate da glitter e canzoni pop.
I’m a Barbie girl, in the Barbie world
Barbieland è il posto idilliaco. Il sole sorge ogni giorno più splendente che mai, la colazione è servita su piatti rosa, la doccia è sempre calda e i vestiti profumati e stirati. Barbie è medico, astronauta, letteraria, pittrice e tanto altro, persino presidente. Nella loro magnifica forma di omologazione sono diverse e uguali allo stesso tempo. La vita nella plastica è perfetta, ma non per tutte: quando la Barbie stereotipo comincia ad avere pensieri di morte, qualcosa si spezza. Cellulite, talloni che toccano terra; l’unico modo per ristabilire l’ordine barbesco sembra essere quello di catapultarsi nel mondo reale e trovare la bambina che ha trasmesso alla sua bambola la negatività di cui tanto ha paura.
Puoi spazzolarmi i capelli, denudarmi ovunque
È l’ambizione a poter essere tutto che scaturisce una forma di nichilismo viscerale. Un concetto forte da accostare ad un film su una Barbie, il giocattolo più bello e sorridente per eccellenza. Ma il limite primordiale, forse, è proprio questo: poter essere tutto e allo stesso tempo niente. Nel 1997 Søren Rasted, Claus Norreen e René Dif scrivevano il singolo Barbie Girl, testo scritto con l’idea di combattere il concetto di donna-oggetto disegnato dalla società capitalistica. Barbie è effettivamente il simbolo del consumismo più sfrenato: accessori infiniti, vestiti cool, case da sogno; è la sagoma di plastica che facciamo fatica a gettare nella differenziata perché ci palesa tutto ciò che di più sbagliato c’è nella nostra contemporaneità.
Barbie, il giocattolo ideato da Ruth Handler e commercializzato dalla Mattel nel 1959, racchiude dentro la sua scatola, il paradosso “stereotipo”. È quasi bizzarro associare ad un pezzo di plastica tutte queste incongruenze; eppure, se ci si sofferma un attimo, il mondo rosa e fatato della bambola diventa improvvisamente cupo e triste. Esemplificativa la scena in cui Barbie e Ken arrivano nel mondo reale sui loro fatiscenti rollerblade; loro, colorati, sorridenti, ignari, circondati da un’umanità grigia dai volti tristi e governata da esseri giudicanti. Il film, basato su questo paradosso, non poteva non essere contraddittorio e assurdo allo stesso modo.
Non è tutta plastica quella che luccica
Immagine irrealistica del corpo, sessismo e stereotipi di genere, materialismo, e chi ne ha più ne metta. Può tutto questo marasma essere compresso dietro una figura angelica dai lunghi capelli biondi e dal viso celestiale? La Barbie di Margot Robbie e scritta da Gerwig e Noah Baumbach è una bambola inconsapevole di portare con sé tutti i mali della sua era. La protagonista vive la sua vita perfetta con la convinzione di aver trasmesso un messaggio positivo a tutte le bambine del Mondo Reale.
Un giorno però, tutto cambia; i dubbi esistenziali e i pensieri di morte renderanno la perfezione tanto imperfetta, quanto reale, tangibile. La bambola, in prenda al panico, cercherà risposte da Barbie Stramba (Kate McKinnon), la bambola maltrattata a cui venivano tagliati i capelli e pitturata la faccia. Su suo consiglio, Barbie intraprenderà un viaggio nel Mondo Reale, fino a Los Angeles, per comprendere le ragioni del suo cambiamento. E Ken? Il principe azzurro dai capelli ossigenati, nascosto sul sedile posteriore della sua Cadillac rosa, camminerà al fianco della sua amata (che per nulla sembra ricambiare il piacere). La nostra protagonista Barbie scoprirà, naturalmente, che il sessismo non solo non è sconfitto, ma è radicato in profondità, assieme al patriarcato.
Hi Barbie! Hi Ken!
Parlare della stupefacente interpretazione dei due è superfluo, ma a noi piacciono le ovvietà. La Barbie della Robbie è più Barbie che mai, il Ken di Ryan Gosling è tanto macho quanto piccolo cucciolo impaurito. Già, lui che vorrebbe solo essere amato dalla sua compagna, allo stesso modo in cui lei ama le sue scarpe. Ken, che è da sempre stato concepito come “un di più”, un romantico compagno e partner di gioco di Barbie, un principe azzurro sul cavallo bianco; il tocco di colore aggiunto che serve a completare il quadro di amore eterno nel mondo fata di Barbie. Ma Ken rimane pur sempre un extra, quasi superfluo (come ben chiarisce la stessa Barbie nel film); in fondo siamo a Barbieland, la realtà capitanata da Barbie e governata da Barbie. E cosa succede a Ken quando arriva nel Mondo Reale? Sente l’onore del patriarcato e se ne lascia ammaliare.
La narrazione altro non è che un viaggio lineare dei due protagonisti, entrambi privati di un qualcosa e entrambi alla scoperta di loro stessi. Lo sguardo maschile di Ken, ignaro dei concetti strettamente collegati al patriarcato, è fondamentale per chiarire un’altra faccia della medaglia, quella che spesso ci dimentichiamo quando parliamo di ruoli di genere.
È un film complesso, sì, ma non pesante. La trattazione di tematiche contemporanee forti è corposa, ma non disturbante. È un film irriverente, che lascia spazio alla risata con un pizzico di amaro. È il classico “fa ridere, ma anche riflettere”.
Il marcio nella nostra società c’è ed è giusto palesarlo, ma con un po’ di glitter è più semplice digerirlo e, soprattutto, affrontarlo.