Esternalità, inquinamento e devasti
Al di fuori del campo degli addetti ai lavori della teoria economia, in pochi sanno cosa si intenda con la parola “esternalità”. Destino comune di tanti concetti semplici, mascherati da nomi che fanno presumere, ai profani della materia, l’incapacità di poterli afferrare completamente. Ma i modelli economici son più modesti di quanto sembrino. O, almeno, di quanto si cerchi di farli sembrare. Ad ogni modo è vantaggioso, in termini di ordine mentale, chiamare le cose con il loro nome: una breve infarinatura potrà annoiare, ma non guasterà. Viene definita esternalità l’effetto che l’attività di un’unità economica esercita, senza che questo sia mediato da un sistema di prezzi, sulla produzione o sul benessere di altre unità. Concretizziamone la nozione con un caso frequente: l’inquinamento delle industrie. Caso specifico, la (oramai ex) Ilva di Taranto. Appropriato quanto scontato, l’esempio calza a pennello. Sappiamo quanto l’inquinamento spesso produca danni sanitari e ambientali, costi “sociali” a cui dovrebbe corrispondere un risarcimento da parte di chi, quei disagi, li ha prodotti.
Fabbrica di tumori
Questa storia la conoscono alla perfezione i cittadini di Taranto. Anche quelli che un libro di teoria economica non lo hanno mai aperto.
La città ospita l’acciaieria più grande d’Europa (in realtà non si sa più di preciso cosa ospiti cosa), attualmente sotto la gestione del colosso del siderurgico Arcelor Mittal: 10 milioni di tonnellate di acciaio l’anno, più o meno il 9% della diossina totale prodotta in Europa. Numeri impressionanti quasi quanto il numero di ammalati di tumore causati dai gas e dalle polveri di scarico degli impianti, correlazione dimostrata dalla perizia disposta dall’allora G.i.p. Patrizia Todisco nel lontano 2011.
In merito a quella che altro non si può definire se non una strage, si consiglia agli interessati la lettura del libro “L’acciaio in fumo: L’Ilva di Taranto dal 1945 a oggi” di Salvatore Romeo (2019). Estremamente significativa è anche la cronistoria del processo “Ambiente Svenduto”, che ha portato al riconoscimento, da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, della violazione da parte dello Stato Italiano dell’art. 8 (diritto alla vita privata e familiare) e dell’art. 13 (diritto ad un ricorso effettivo della Convenzione).
Unica fonte, innumerevoli impatti
Ma non solo di tipo sanitario sono gli impatti. Ciò di cui si parla meno, sono gli shock negativi che l’Ilva ha provocato, nel corso dei decenni, sulle altre attività produttive. La pesca, l’allevamento, l’agricoltura, il mercato immobiliare e il turismo i comparti più colpiti.
Allevamento
Il 10 Dicembre del 2008, a seguito di una serie di controlli a catena, effettuati sul bestiame proveniente da allevamenti piazzati ad un raggio di 2 kilometri attorno allo stabilimento, si rivelarono tracce di diossina nella produzione casearia. Risultato: abbattimento immediato di più di 1000 capi di bestiame. Nonostante l’area fortemente interessata di contaminazione risultò essere quella ricadente in un raggio di almeno 10 kilometri attorno allo stabilimento, improvvisamente i controlli si fermarono. Il perché è da ricercarsi nelle parole di Vincenzo Fornaro, allevatore e attualmente consigliere comunale, a cui furono sottratti e abbattuti circa 500 capi di bestiame: “Hanno paura di scoprire il disastro”.
Agricoltura
Rimanendo sul settore primario, Confagricoltura Taranto si è costituita come parte civile del processo “Ambiente Svenduto”, chiedendo danni per 10 Milioni di euro per “le ricadute negative sull’immagine dei prodotti agroalimentari locali”. Non stupisca la noncuranza nei confronti del settore agricolo: nel ’61, all’inizio dei lavori per la costruzione dello stabilimento, le autorità permisero di sradicare 2000 alberi di ulivo, per la maggior parte situati in terreni espropriati. Gli ex proprietari furono costretti ad incassare gli indennizzi.
Pesca
Che dire della pesca? Taranto, è conosciuta per essere “la città dei due mari”: il Mar Grande e il Mar Piccolo. Nel secondo, che in realtà è un’insenatura del primo, sono localizzate delle sorgenti di acqua dolce chiamate “citri”. Questi creano una condizione idrobiologica ideale per la coltivazione dei mitili. Ogni anno, idealmente, ogni tarantino produce 72 kg di cozze. La produzione rasenterebbe il 10% di quella nazionale, se non fosse per i continui ridimensionamenti di volume a cui si è sottoposti, per via dei quantitativi di diossina e Pcb trovati negli stock, a seguito dei controlli. L’inquinamento è generato dai citri stessi: essi accompagnano, oltre che l’acqua dolce, anche sostanze inquinanti scaricate nelle falde. Nel corso del tempo, oltre 20 km quadrati di Mar Piccolo adibiti alla mitilicoltura sono stati parzialmente sgomberati.
Crisi del mercato immobiliare
Una sentenza del Tribunale di Taranto del 31 Gennaio 2018, precisamente la n. 45, ha inoltre dichiarato che il valore degli immobili del quartiere Tamburi si è deprezzato del 20% nel corso degli anni. Precisiamo che la sentenza non tiene conto del disagio creato dalle polveri, riversato in spese per la pulizia di strade, arredi urbani e verde pubblico.
Vocazione industriale, turismo negato
Passiamo al settore terziario. La situazione turistica non è delle migliori: Taranto ha conosciuto meno turismo rispetto a quanto ne abbiano convogliato altre aree limitrofe, come il Salento, la Murgia o la Basilicata. La città, devoluta dalla retorica politica ad espressione di “vocazione industriale” (nonostante non esistano giacimenti in loco) accusa da decenni danni per il mancato sviluppo di economie alternative. Le dichiarazioni politiche, poi, non aiutano. Risalenti a un anno fa le parole del Ministro Marco Centinaio: “L’Ilva deve continuare ad essere un sito produttivo. Io non andrei a passare le mie vacanze lì”. Datate a qualche mese prima quelle di Di Maio, in merito al fatto che a Taranto non fosse presente un degno museo della Magna Grecia. Per la cronaca, da 130 anni il MarTa offre una delle più grandi collezioni in merito, con un’affluenza annuale che supera costantemente gli 80.000 visitatori.
Debiti pubblici, benefici privati
Per concludere, passiamo in rassegna altri costi non meno considerevoli sulle spalle di contribuenti e famiglie. Potendo definire anche essi come delle esternalità negative senza eccessivi voli pindarici, un bilancio viene fornito dal Piano Taranto. Nel documento elaborato da svariate associazioni del luogo “contenente le linee guida per la riconversione economica e sociale del territorio in ottica di chiusura e alternativa radicale alle industrie invasive”, i numeri sono scrupolosi: 130 milioni di ammortizzatori sociali a seguito di licenziamenti, un miliardo e 250 milioni tra garanzie e “aiuti” (o meglio regali) di Stato fra il 2009 e il 2017 e 463 milioni di costi sanitari. Tutto ciò al netto degli esborsi sostenuti dalle famiglie per i “viaggi della speranza”, che ogni anno tanti cittadini intraprendono per curarsi al di fuori della propria regione.
Chiudere l’ex-Ilva, si può?
Si potrebbe pensare facilmente ad una logica di “too big to fail”. In realtà, vari studi portati a compimento, dimostrano il contrario. Scorrendo il Piano Taranto ci si accorge di come i costi di una bonifica e conversione siano estremamente più bassi del mantenimento in vita di un colosso che oramai da più di un decennio accumula ed esternalizza costi abnormi, in tutti i settori e per tutte le categorie sociali.
Impossibile non riscontrare le motivazioni di questa mancata eutanasia in una carenza di voglia o di potere effettivo da parte dell’autorità politica. Il non considerare il ricorso a varie tipologie di Fondi Europei, nonostante ve ne sia la possibilità, ne è un lampante esempio. Ai sensi del Decreto Legge del 2012 numero 83 art. 27, alla città è stato attribuito lo stato di “area in situazione di crisi industriale complessa”. Ciò comporterebbe la possibilità di richiedere vari tipi di finanziamento comunitari: il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione, il Fondo Sociale Europeo, il Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale e altri legati allo sviluppo del settore primario. Le istanze, tuttavia, non sono mai state presentate in Europa.
E’ difficile pensare ad una Taranto del futuro senza siderurgico; sta tuttavia diventando impossibile pensarla con. Affidare il presente ed il futuro di un’intera area, comunità, società ed economia ad una sola azienda richiama modelli da secondo dopoguerra. Ciò si concretizza nel dipendere in tutto e per tutto da essa, nel bene e nel male. Si spera che nel futuro la città sappia rinascere, andando oltre ciò che l’ha resa, nel corso di più di 60 anni, inerme e sacrificabile all’altare del profitto di qualcuno.