Negli ultimi anni abbiamo assistito a una serie di terremoti senza precedenti; mai nel nostro paese si era registrata una sequenza così concentrata di fenomeni sismici come tra 2016 e 2017. Queste calamità si sono verificate spesso nella storia della nostra penisola. Accaddero anche a Bologna tra 1504 e 1505, modificando drasticamente l’aspetto della città universitaria per eccellenza. Numerose furono le costruzioni distrutte e grandi furono i danni ai più grandi monumenti cittadini. Ciò che però ci ha consegnato il ricordo di quel temibile avvenimento non sono i resti di qualche palazzo, bensì un ex voto fatto da una delle famiglie più potenti del rinascimento italiano, i Bentivoglio. Fu Giovanni II Bentivoglio, all’epoca signore di Bologna, a finanziare il restauro della trecentesca parrocchia di Santa Cecilia, poi trasformato in oratorio. La risistemazione venne attuata come ex-voto per essere scampato, assieme alla sua famiglia, alla furia del sisma.
Tanti pennelli e una fonte
Edificata lungo Via Zamboni, strada che collega la zona universitaria alle famose torri, Santa Cecilia sorge accanto alla più grande chiesa di San Giacomo Maggiore. Già alla fine del ‘400 il complesso di Santa Cecilia si vide privato dell’ingresso, divenuto parete di fondo della nuova Cappella Bentivoglio costruita nella adiacente chiesa. La nuova entrata venne aperta lateralmente, sotto il lungo porticato che costeggia i due templi. La trasformazione più rilevante avvenne però sotto la direzione di Giovanni II che, tra 1505 e 1506, fece chiamare alcuni dei massimi pittori del rinascimento per dipingere la pareti di quello che ormai era ridotto a oratorio. Furono così incaricati Francesco Raibolini, meglio noto come il Francia, Lorenzo Costa e Amico Aspertini. Il programma decorativo prevedeva le storie di Santa Cecilia suddivise in dieci scene, cinque per lato in senso antiorario, basate sulla Passio Sanctae Ceciliae tramandataci dalla Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine.
Per alcune delle dieci scene si è ancora incerti sulla attribuzione. Non furono solo i maestri sopracitati a intervenire nel cantiere bolognese, vari storici dell’arte hanno più volte citato in causa il Chiodarolo, il Tamoroccio, Bagnacavallo e Pupini senza però arrivare a una soluzione. Entrando nell’oratorio ci accorgiamo che la struttura fu ridotta di una campata per permettere la costruzione, nell’ ‘800, del passaggio al convento agostiniano che si erige oltre l’edificio. Alzando gli occhi possiamo ammirare quello che rimane di alcuni affreschi di Amico Aspertini con l’Assunzione e San Giovanni a Patmos. Sono dipinti molto deteriorati che solo un recente restauro ha permesso in parte di leggerne il contenuto. Sulla data di conclusione del cantiere bentivolesco non si ha certezza. Nel 1506 le truppe pontificie di Papa Giulio II scacciarono i Bentivoglio da Bologna: si ipotizza che per quell’anno fossero terminati anche le decorazioni in Santa Cecilia.
Cantantibus organis, Cecilia virgo in corde suo soli Domino decantabat
La prima scena tratta dello Sposalizio di Santa Cecilia, opera di Francesco Francia. Cecilia viene data in moglie al pagano Valeriano. La Santa, come in ogni storia che si rispetti, non ha alcuna intenzione di convogliare a nozze con un uomo impostogli. Francesco Francia, per sottolineare questa divisione religiosa e sentimentale, usa sapientemente le luci, posizionando la Santa e le sue ancelle sotto una luce cristallina e lasciando in ombra Valeriano con il suo seguito. Questo gioco luministico è particolarmente evidente se si osserva il porticato sotto il quale si svolge la scena. Simbolicamente la parte in ombra richiama l’oscurità del paganesimo. Non è dunque un caso se, alle spalle del pagano Valeriano, compare un uomo con indosso un turbante. Cecilia cerca di ritirarsi con un gesto aggraziato, volgendo lo sguardo dalla parte opposta, controbilanciata dalla ancella che le regge delicatamente la mano per la consegna della fede nuziale.
Proseguendo con la storia troviamo l’affresco di Lorenzo Costa con la Conversione di San Valeriano. La notte successiva alle nozze Cecilia rivela al marito di aver fatto voto di castità e di essere protetta da un angelo inviatele da Dio. Valeriano si convince a diventare cristiano affinché anche lui possa vedere l’angelo che protegge la sposa: si reca così da papa Urbano per farsi battezzare. Lorenzo Costa suddivide la scena in due parti. Sullo sfondo, in lontananza, Valeriano a cavallo si mette in cammino per raggiungere il santo padre sulla via Appia, luogo in cui il pontefice si era rifugiato per scampare alle persecuzioni. In primo piano assistiamo invece all’incontro di Valeriano con papa Urbano. L’uomo, nell’atto della conversione, legge una frase tratta dalla lettera di San Paolo agli Efesini: unus Deus, una fides, unum baptisma. Curiosa la presenza di un astante vestito da pellegrino riconoscibile dalla conchiglia sul copricapo.
Valeriano il pagano diviene santo
Proseguendo nella narrazione troviamo Amico Aspertini che, coadiuvato da altri pennelli purtroppo irriconoscibili, dipinge il Battesimo di Valeriano. Al centro della scena il santo riceve il battesimo dalle mani di Papa Urbano. Il neofita ha consegnato armi e vestiti a un paggio sulla destra mentre l’altro suo servitore, ancora adolescente, richiama l’attenzione dello spettatore alla scena che si sta svolgendo sullo sfondo. Alle spalle di Valeriano, messi in risalto dal vuoto creatosi dall’azione, compare, con abiti bianchi, una figura accompagnata da una donna e un cane, simbolo di fedeltà. Non si è ben compreso chi sia questo personaggio. In molti si sono domandati se possa trattarsi della moglie Cecilia, se sia l’angelo che col battesimo si sarebbe manifestato anche a Valeriano o se sia una seconda scena con lo stesso santo. Ricevuto il battesimo, San Valeriano ritorna dalla moglie Cecilia e qui la trova in compagnia dell’angelo protettore.
Il destino dei martiri
Sono ancora l’Aspertini e i suoi aiutanti a consegnarci quella che è forse la scena più bella di tutto il ciclo pittorico: L’angelo consegna le corone del martirio. Al centro della composizione giganteggia maestosa la figura della creatura celestiale, dipinta all’interno di una mandorla illuminata di luce divina, nell’atto di incoronare Cecilia e Valeriano. Le braccia incrociate della santa esprimono la sua intima sottomissione al volere divino. Tale iconografia è molto diffusa, basti pensare alle miriadi di Vergini annunciate raffigurate nel medesimo atteggiamento. Valeriano, vedendo finalmente l’angelo protettore della moglie, è come folgorato da tale visione. Il suo viso non tradisce lo stupore. Sullo sfondo sono rappresentate altre due scene. Su un piano intermedio, a sinistra, si possono vedere i santi coniugi in compagni di Triburzio, fratello di Valeriano, nel frattempo convertitosi. Sulla destra, più in lontananza, è visibile invece papa Urbano nell’atto di battezzare lo stesso Triburzio.
Nella quinta e ultima scena qui analizzata, il Martirio di Valeriano e Triburzio, Amico Aspertini ci trasporta lungo la via Appia. Centro nevralgico della scena è la decapitazione dei due santi fratelli, uccisi perché, dopo essere stati catturati, si rifiutarono di sacrificare a Giove, richiamato tramite l’idolo sulla colonna. Valeriano e suo fratello, una volta entrati nella comunità cristiana, si adoperarono pietosamente nella sepoltura dei martiri cristiani. Fu il prefetto Turcio Almachio a decretare il loro destino. Prima di essere uccisi Valeriano e Triburzio riuscirono a convertire numerose persone tra cui un funzionario romano di nome Massimo. Colpisce, sulla sinistra, la presenza di un dolmen, sotto il cui arco ci proietta direttamente a Roma tramite una visione del Colosseo, visto da Aspertini poco tempo prima durante il suo soggiorno romano. Particolare curioso è la presenza di due personaggi rappresentati, in una specie di duello, proprio sulla cima della costruzione rocciosa.
FINE I PARTE
Danilo Sanchini