In occasione della Cerimonia internazionale di liberazione e commemorazione a Mauthausen, la presidente di ANED (Associazione nazionale ex deportati) sezione di Bologna, Giuliana Fornalè, racconta il viaggio della memoria, in ricordo dei deportati nei campi di sterminio nazi-fascisti.
Giuliana Fornalè, presidente della sezione ANED di Bologna, oltre ad essere una guida chiara ed appassionata, è stata anche tanto gentile da rispondere alle mie domande sul viaggio della memoria, dopo sei ore di autobus e altrettante di cerimonia.
Le sue parole racchiudono lo spirito dell’evento, le intenzioni dell’ANED, e illustrano un percorso per sentirsi più vicini a chi ci ha preceduti e ha vissuto, caricarsi sulle spalle la loro testimonianza e consegnarla ai giovanissimi.
Trovo sia interessante capire come questi temi siano stati scoperti da una giovane studentessa universitaria, talmente appassionata da ritrovarla, dieci anni dopo, nel ruolo che oggi ricopre.
Come si è avvicinata all’ANED?
«Ho conosciuto l’ANED sezione di Bologna nel 2011, perché, frequentando la triennale di storia contemporanea a Bologna, avevo deciso di fare una tesi sulla storia delle donne; quindi, su suggerimento della mia professoressa, pensai di scriverla sulla deportazione femminile.
Avuto il contatto dell’ANED, sono andata a parlare con le volontarie Angela Berzuini e Valeria Quadri (quest’ultima partecipante al viaggio, ndr), che mi hanno fornito della documentazione sull’esperienza delle donne politiche italiane a Ravensbruck. Il collegamento quindi è stato l’università, che mi ha permesso di conoscere i volontari dal vivo nella loro sede, che all’epoca era in via De Pignattari.
Dopo di che ho scritto la tesi e lo stesso anno ho deciso di partecipare al viaggio della memoria. Ero stata informata di questi viaggi e nel 2011 partecipai al viaggio con Armando Gasiani. Lui era un antifascista, un collaboratore dei partigiani, preso con il fratello Serafino nel rastrellamento del dicembre ’44 che coinvolse tutta la pianura, quindi anche Anzola dell’Emilia e San Giovanni in Persiceto.
Rimasi impressionata dalle parole di Armando: sapeva trasmettere le emozioni necessarie per capire il campo di concentramento, ma non se ne faceva sopraffare: era un racconto chiaro in modo che noi potessimo capire.»
Una voce, dunque, che, limpida e precisa, illustrava le vicende storiche di cui oggi leggiamo, con molta più freddezza, sui libri.
Come è stato il viaggio allora e quanto è cambiato adesso?
«Tanto, perché non ci sono più gli ex deportati che possano fare da guida. Era la cosa principale: l’ex deportato raccontava, i ragazzi pendevano dalle sue parole e non c’era bisogno di altro. Noi adesso dobbiamo cercare di trasmettere la stessa emozione che il deportato trasmetteva, ma non è semplice.
Per organizzare questi viaggi lavoriamo e studiamo tanto, proviamo nuove metodologie per poter attualizzare la memoria e renderla ancora più fruibile. E soprattutto ci dedichiamo al rapporto con i ragazzi. Il nostro obiettivo è prendere confidenza con loro, lavorare insieme per una visita che sia il più coinvolgente possibile e che sia capace di suscitare quelle emozioni che il deportato trasmetteva da sé.»
E infatti sono state giornate piene di attività formative, ovviamente calibrate sull’età dei più giovani. A ciascuno sono stati dati un fazzoletto dell’ANED, una scheda su un deportato, un libretto informativo sui luoghi visitati.
Abbiamo ascoltato testimonianze registrate e i racconti di Carlo Morselli sui suoi parenti, sul loro coraggio e la loro bravura. Maria Cutore e Giuliana Fornalè hanno curato principalmente la parte storica, facendo rivivere i campi davanti ai nostri occhi, raccontando episodi anche meno noti e spesso trascurati dal programma di storia delle scuole.
Cosa è più difficile trasmettere in questi casi, e cosa è più difficile nei viaggi della memoria?
«La cosa difficile secondo me è il poco tempo a disposizione perché, comunque, la visita nei campi dura poco: a Mauthausen stiamo circa due ore e mezza, che sembra tanto ma in realtà non è sufficiente. Ci sarebbe tantissimo da raccontare sulla storia del campo e soprattutto sulla storia della deportazione bolognese, quindi bisogna cercare di sintetizzare l’argomento senza sacrificare la spiegazione e l’emozione.
Per questo noi studiamo le visite in modo tale che possano arrivare direttamente alle persone. Spesso siamo costretti a dover raccontare alcune cose e ad escluderne altre, o far vedere determinati luoghi che noi riteniamo importanti e non altri. Quindi consigliamo sempre di fare ulteriori ricerche per ampliare quello che noi abbiamo già detto.
Altra cosa difficile è il rapporto con i ragazzi. Devi entrare in sintonia con loro e far capire che tu non sei un professore: non è una lezione di storia, ma un viaggio della memoria, tu sei il narratore, lui l’ascoltatore, ma il rapporto è alla pari, e ogni domanda è ben accetta, anche per permetterci di capire se siamo chiari.»
Invece all’interno dell’organizzazione ANED cosa risulta ancora difficile, cosa potrebbe essere migliorato? Su che cosa bisogna ancora lavorare?
«Noi dobbiamo ancora lavorare su alcune cose, Valeria (Quadri, ndr) sarà d’accordo con me. In primis sull’ottenere finanziamenti per i viaggi: questo è importante perché le istituzioni pubbliche dovrebbero essere più coinvolte. È vero che ci sono comuni che pagano le quote per alcuni studenti, ma sarebbe importante che così fosse per molti altri: avremmo così la possibilità di portare sempre più gruppi. Siamo un’associazione di volontari, le nostre entrate sono le donazioni, il tesseramento, i pranzi sociali, però avremmo bisogno di finanziamenti più corposi per poter gestire le cose nel migliore dei modi.
Un altro aspetto che per me è sempre da migliorare, è la comunicazione. Dovremmo entrare in contatto con le altre sezioni dell’ANED per scambiarci informazioni e confrontarci sulle cose che si potrebbero migliorare anche nel corso dei viaggi; è vero, noi li organizziamo da tanto tempo, ma secondo me ci si potrebbe sempre arricchire basandoci su quello che fanno gli altri: si tratta sempre di esperienza utile.
Per il resto, devo dire che la mia sezione (di Bologna) funziona bene, è una squadra forte, fatta di persone che lavorano insieme. Ogni tanto dobbiamo anche noi resettarci e riequilibrare alcuni aspetti, ma grossi problemi non ne presentiamo.»
C’è una figura storica che negli anni le è risultata particolarmente cara?
«Sì, ce ne sono due. Anzitutto, Armando Gasiani, perché è stato il primo deportato con il quale ho fatto il viaggio della memoria e credo che la sua esperienza sia quella che più mi ha coinvolto, che mi ha portato a far parte dell’associazione, a fare la guida nei viaggi e infine ad essere eletta presidente. Questo è stato un percorso abbastanza scaglionato, ci sono stati diversi passaggi.
E poi porto nel cuore, anche se non l’ho conosciuta personalmente, Nella Baroncini: ho letto tanto su di lei, ho conosciuto, conosco, il nipote, Ligio Roveri. Mi sono affezionata perché per me la deportazione femminile, l’argomento della mia tesi, è una tematica a cui tengo particolarmente e che mi interessa spiegare ai ragazzi. Ha avuto delle caratteristiche peculiari rispetto a quella maschile: senza fare una scala gerarchica della sofferenza, ma ci sono stati proprio degli aspetti diversi che vanno capiti.»
La prima figura nominata l’ha portata con sé simbolicamente: difatti aveva, sul suo fazzoletto, il numero da deportato e il nome di Gasiani, cosa che è stata molto significativa.
Un’opinione più generale sui viaggi della memoria?
«Richiedono un’organizzazione lunga anche per l’associazione: abbiamo bisogno dell’aiuto di tante persone che lavorano insieme. Sono viaggi che a me piacciono perché mi danno la possibilità di visitare i campi, poter portare onore e, dico sempre, i miei saluti, perché li vedo come se fossero – e in qualche modo lo sono – i luoghi dove riposano i nostri compagni caduti. Quindi li andiamo a salutare, facciamo commemorazioni, portiamo fiori e viviamo un momento molto intenso.
Il deportato diventa, anche se non l’hai mai conosciuto, come un tuo familiare, un membro della famiglia. Diventa il familiare di tutti, della collettività.
I viaggi mi danno poi la possibilità, cosa che a me piace molto, di stare con i ragazzi e trasmettere le emozioni, ciò che ho imparato nei miei viaggi. Mi piace soprattutto vedere che loro sono attenti e partecipi, il che significa che hanno capito: tutto questo mi riempie di gioia.
Per me significa tramandare la memoria, come se fossimo delle staffette, delle staffette della memoria, un passaggio del testimone, perché mi ricollego sempre alle nostre staffette partigiane. Loro portavano i messaggi da una postazione all’altra, e noi stiamo facendo la stessa cosa. Il concetto è lo stesso. Ovviamente loro rischiavano la vita, e non può essere paragonato, ma simbolicamente io vedo la trasmissione del ricordo in questo modo.»
Purtroppo, non sempre è possibile comprendere l’impatto che le parole e le narrazioni hanno su chi le ascolta, specialmente se si tratta di ragazzi più giovani. Sarebbe bello se si potessero scoperchiare le menti di tutti, vederne le riflessioni, e così trovare una soluzione per far sì che tutti davvero capiscano, davvero sentano la voce della più grande ferita aperta dell’Europa…
Non ne avremo mai la certezza, ma possiamo, e dobbiamo, sempre provarci. Io so che le emozioni sono state trasmesse, ricevute e conservate in me, e sono sicura di aver letto questa stessa profonda comprensione negli occhi di alcuni altri, nelle loro parole. E questo mi dà un poco di speranza.
Emilia Todaro