giovedì, 19 Dicembre 2024

Il Venezuela e l’annessione dell’Esequibo. Una nuova guerra alle porte?

Nel 2014, dopo aver strappato la Crimea all’Ucraina per mezzo dei suoi “omini verdi”, la Russia aveva indetto un referendum dalle modalità molto dubbie per legittimare l’incorporazione della penisola al territorio nazionale. In Venezuela, Nicolás Maduro ha fatto lo stesso, ma in ordine invertito e nel suo stesso paese. Lo scorso 3 dicembre, Maduro ha voluto trasferire alle urne la decisione di annettere al Venezuela la regione dell’Esequibo, oggi appartenente alla Guyana, ancor prima che venisse sparato un solo colpo contro un altro Stato sovrano. Nonostante ciò, la possibilità che il Venezuela passi alle vie di fatto scatenando una guerra interstatale che in Sudamerica non si vedeva da quasi trent’anni è ancora tutta da verificare.

Questa regione delimitata dal fiume Essequibo a est e l’attuale confine tra Guyana e Venezuela a ovest, è rivendicata da quest’ultima da ben due secoli. Si tratta di un’area selvaggia e scarsamente abitata, ma ricca di risorse minerarie ed energetiche. Questo non fa che aumentare la posta in gioco per Caracas, al di là dei fattori propagandistici e identitari.

La Guyana, il territorio della Guayana Esequiba rivendicato dal Venezuela e la regione di Tigri rivendicata dal Suriname (Fonte: https://www.persuasion.community/p/the-forgotten-dispute-that-could)

Il Venezuela in un continente irredentista

Le rivendicazioni venezuelane hanno origini remote. Sulla base delle mappe spagnole, la regione dell’Esequibo (o Guayana Esequiba come viene chiamata in Venezuela) rientrò nella Grande Colombia, la Repubblica sorta dopo le indipendenze latino-americane di inizio Ottocento. Dopo la sua nascita, però, lo Stato del Venezuela iniziò a contendersi la zona con le altre potenze presenti nella regione della Guyana, ossia i Paesi Bassi in un primo momento e il Regno Unito in seguito. Nel 1899, un arbitrato internazionale assegnò la sovranità dei territori dell’Esequibo in favore degli inglesi. Quando la Guyana cessò di essere un dominion della corona britannica nel 1966, l’attenzione del Venezuela per la vecchia zona en reclamación si riaccese, sostenendo che gli inglesi abbiano corrotto i giudici dell’arbitrato del 1899.

Questa situazione non è un’eccezione in Sudamerica. Dopo l’indipendenza, le neonate repubbliche hanno avuto una lunga storia di scaramucce e conflitti per la demarcazione delle frontiere e per l’attribuzione della sovranità di vaste aree desolate. Alcuni esempi sono i confini tra Perù ed Ecuador, oppure il lungo tracciato divisorio tra Argentina e Cile. In diversi casi alcuni paesi accusano i loro vicini di “aver rubato” loro intere regioni. È emblematico il caso della Bolivia, che perse il suo unico sbocco sull’oceano nel 1884 a seguito di una guerra contro il Cile.

Ma la questione dell’Esequibo è un déjà-vu ben specifico nel subcontinente. Infatti, alcuni osservatori come Emiliano Guanella (ISPI, Huffington Post) si sono riferiti all’Esequibo come alle isole Malvinas di Nicolás Maduro. I parallelismi sono molteplici: si ha un paese latino-americano che rivendica un territorio scarsamente urbanizzato di lingua inglese e cultura anglosassone, motivato da questioni territoriali che hanno origine nella colonizzazione europea e nelle successive indipendenze latino-americane. Ma soprattutto, gli storici concordano sul fatto che l’invasione delle Falkland/Malvinas da parte dell’Argentina nel 1982 fosse stata il tentativo di un governo autoritario di catalizzare l’attenzione dei cittadini verso un nemico esterno, distogliendola dalla disastrosa situazione economica interna e utilizzando una retorica antimperialista e sciovinista.

Si tratterebbe dunque di un copione già visto in questa parte di mondo. Anche molti oppositori di Maduro condividono la similitudine con le Malvinas, accusando il governo di essersi servito del recente referendum come mossa politica per dirigere l’attenzione dei venezuelani altrove, in modo che ignorino i numerosi problemi che attraversa il paese da anni.

Murale propagandistico nelle strade di Caracas per il referendum del 3 dicembre (Fonte: humanite.fr ©Federico PARRA / AFP)

Un referendum-farsa per il consenso interno

Da diverso tempo il Venezuela stia vivendo un’iperinflazione fuori controllo, che secondo le stime quest’anno ha raggiunto il 359.99%. Assieme alla continua carenza di beni di base, alla criminalità organizzata e alla stretta autoritaria di Maduro contro le opposizioni, ciò ha generato un enorme flusso di migranti verso i paesi vicini, che è diventato la più grave crisi di rifugiati accaduta sul continente americano. La diaspora venezuelana è tra quelle che conta più persone al mondo, diretta perlopiù verso Stati Uniti, Europa e altri paesi latino-americani.

Indicendo questo referendum, Maduro avrebbe cercato chiaramente di far leva sul nazionalismo e di accrescere i consensi in vista delle elezioni del 2024. Non solo tornerebbe utile per la sua terza rielezione, ma secondo alcuni lo stato d’emergenza causato da un imminente conflitto potrebbe anche permettere a Maduro di posticipare l’appuntamento alle urne, rendendo vani gli appelli della comunità internazionale per delle elezioni minimamente democratiche.

Il referendum consultivo avrebbe registrato numeri da record. Secondo i dati del regime, il 50% degli aventi diritto avrebbero approvato i cinque quesiti referendari con circa il 95% dei voti favorevoli. Nonostante i grandi risultati annunciati dalla Corte Nazionale Elettorale venezuelana, non si sono viste code ai seggi e Maduro stesso avrebbe chiesto di posticipare di due ore la loro chiusura. Secondo l’oppositore del governo Enrique Capriles, la vera affluenza sarebbe stata di circa 2 milioni di votanti. Infatti, siccome il referendum prevedeva cinque domande diverse, il governo avrebbe contato i voti per ogni singolo quesito, gonfiando il numero dei partecipanti di cinque volte e arrivando così a 10 milioni.

Tra i cinque quesiti referendari, alcune formulazioni si sono rivelate palesemente suggestive. Il primo di questi recita: “Vuole rifiutare con ogni mezzo la linea imposta fraudolentemente dal lodo arbitrale di Parigi del 1899 che pretende sbarazzarci della nostra Guayana Esequiba?”. Il terzo quesito invece mira a ritenere invalida la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia quale mezzo di risoluzione della controversia territoriale. Infine, il quinto quesito prevede la vera e propria integrazione accelerata dell’Esequibo all’interno del Venezuela in qualità di 24esimo Stato federato, mentre alla popolazione locale “attuale e futura” verrebbe rilasciata la carta d’identità venezuelana e diverrebbero cittadini venezuelani a tutti gli effetti.

La risposta della Guyana

Dall’altra parte della frontiera, il referendum di Maduro ha suscitato la ferma opposizione della Repubblica Cooperativa di Guyana, in particolare nel suo ultimo punto. Il governo di Georgetown aveva già annunciato che non ne avrebbe riconosciuto il risultato. Stando alle richieste venezuelane, la Guyana perderebbe un’enorme porzione del suo territorio, il 60% della sua superficie totale. Escludendo anche la regione di Tigri rivendicata dal Suriname, del paese non rimarrebbe che una sottile striscia di territorio che dall’Atlantico arriva al confine brasiliano.

Le reazioni internazionali all’esito del referendum sono state univoche. Già il 1° dicembre la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia sollecitata dalla Guyana aveva invitato il Venezuela ad astenersi dall’intraprendere azioni militari contro Georgetown. Ma il Venezuela si è rifiutato di riconoscere la giurisdizione della Corte dell’Aia per risolvere il conflitto. È stato già abbastanza chiaro quando la vicepresidente Delcy Rodríguez ha definito “colonialismo giudiziario” l’operato dell’ICJ. In seguito, la Guyana si è attivata per risolvere la questione in varie sedi internazionali cercando di raccogliere il sostegno di altri attori regionali. Ha coinvolto organismi come l’Organizzazione degli Stati Americani (OAS), la Comunità Caraibica (CARICOM) e il Commonwealth. In sede ONU ha inoltre investito della crisi il Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

La Guyana conta circa 800.000 abitanti, non possiede un vero esercito ed è dotata di un esiguo corpo di polizia. Perciò gli sforzi per scongiurare un’invasione venezuelana sono passati anche dalla pronta conferma dell’appoggio militare “incondizionato” da parte del Regno Unito e degli Stati Uniti. Questi ultimi da tempo trovano nel governo guianese uno stretto alleato regionale.

Da parte sua, il Brasile ha aumentato la presenza delle sue truppe nello Stato del Roraima, nell’estremo nord del paese. Come scrive El País, Lula dovrà impegnarsi in un esercizio di equilibrismo politico che lo costringerà a “tornare alla sua passione di mediatore mondiale“.

Il ruolo delle risorse naturali

Le grandi risorse minerarie dell’Esequibo giocano sicuramente un ruolo notevole in questa vicenda. La regione possiede ampie riserve di minerali e metalli come oro, rame, bauxite, manganese, uranio, alluminio e ferro, risorse che rappresentano un’entrata essenziale per la Guyana. Il paese recentemente ha conosciuto un’imponente crescita economica trainata dall’estrazione di risorse naturali, in particolare del petrolio. Infatti, nel 2015 la multinazionale Exxon Mobil ha scoperto vicino alle sue coste il giacimento petrolifero Stabroek Block, uno dei più vasti al mondo, e ciò ha attirato l’attenzione di tante altre compagnie del settore sulla Guyana. Le entrate derivanti dall’estrazione del petrolio sono schizzate dallo 0.1% al 22.1% del PIL guyanese nel giro di soli due anni, tra il 2019 e il 2021. Questo starebbe trasformando la Guyana in uno dei principali paesi produttori di petrolio in America Latina.

Proprio in occasione di questa importante svolta, il revanscismo per la Guayana Esequiba ha ricevuto nuovo impulso. Con l’approvazione della quarta domanda del referendum, il Venezuela ha reso ufficiale il rifiuto dell’attuale delimitazione delle acque territoriali al largo dell’Esequibo. Pertanto, Caracas considera illegale l’estrazione di petrolio al largo della zona contesa e le sue motovedette sono già sconfinate nelle acque al largo della regione. Inoltre, il fatto che Exxon Mobil sia una multinazionale statunitense offre a Maduro l’ennesima eccellente sponda retorica antimperialista contro Washington.

Nonostante sia già il paese con le maggiori riserve petrolifere al mondo, al Venezuela farebbe molto comodo sbarazzarsi di un nuovo competitor sudamericano nei mercati internazionali del greggio, che offre alle imprese straniere royalties molto più basse per la sua estrazione. In seguito al referendum, Maduro ha incaricato le due compagnie nazionali Pdvsa e Cvg di avviare l’assegnazione delle licenze esplorative per la ricerca di greggio e altre risorse nell’Esequibo.

Tuttavia, proprio il petrolio potrebbe dissuadere il governo venezuelano dal compiere azioni troppo avventate. Infatti, negli ultimi anni gli USA hanno alleggerito le sanzioni contro il Venezuela permettendogli l’esportazione del greggio verso i mercati occidentali. Pertanto, sembrerebbe che per il momento un ricorso alla forza armata sia poco probabile, vista la possibilità di nuove sanzioni economiche.

Quale sarà il passo successivo del Venezuela?

Le prossime mosse di Maduro restano in ogni caso un’incognita, tra lo scetticismo degli osservatori internazionali e i campanelli d’allarme lanciati dal presidente guyanese Irfaan Ali. C’è chi vuole ridimensionare la situazione affermando che il referendum in fin dei conti sia stato solo una “questione interna” limitata al Venezuela e che non avrà nessun altro effetto sulla pace internazionale.

Ma negli anni ’20 del ventunesimo secolo abbiamo avuto occasione di vedere come gli Stati possono decidere con molta facilità di risolvere le proprie controversie direttamente sul campo di battaglia. Forse un nuovo conflitto armato tra due entità statali in una regione insospettabile come l’America Latina, estremamente violenta ma relativamente poco bellicosa, non ci sorprenderà più di quel tanto.

Massimiliano Marra
Massimiliano Marrahttps://www.sistemacritico.it/
Di radici italo-cilene ma luganese di nascita, attualmente studio economia e politiche internazionali all’Università della Svizzera Italiana e mi interesso di storia e relazioni internazionali con un occhio di riguardo ai contesti extraeuropei. Nel tempo libero suono il basso elettrico e vado in burn out di musica.

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