Templi buddhisti immersi in lande boschive, pagode illuminate dai colori del tramonto asiatico, monaci in tuniche rosse. Queste sono le immagini che per prime sovvengono quando si pensa al Myanmar, stato del sud-est asiatico incastonato fra Cina, Bangladesh e Thailandia. L’ex-Birmania è una perla ancora relativamente inesplorata in una zona del mondo tanto affascinante quanto politicamente complessa. Eppure, un elemento si è fatto strada facilmente anche nel campo dell’informazione mainstream e ad oggi è un fattore identificativo del paese: la figura di Aung San Suu Kyi, Nobel per la Pace 1997.
Leader pro-democrazia e diritti umani, emersa agli onori delle cronache nel lontano 1988 per via di un suo grande discorso a Yangon nel pieno delle proteste Four Eights (8/8/88), co-fondatrice del principale partito d’opposizione al regime militare, l’NLD (National League for Democracy), è una figura che ha fatto breccia nell’immaginario collettivo occidentale. Tanto più perché, dal 2015, riveste la figura di Consigliere di Stato ed è de facto il leader politico del nuovo Myanmar post-regime. Quasi una protagonista di un romanzo, con una carriera politica non molto dissimile da quella di Mandela in Sudafrica. E di un romanzo che, come noto, piace molto all’Occidente: un check sulla condizione “democrazia” e automaticamente la storia viene idealizzata in modo positivo.
Una realtà più complessa
La realtà è però, come al solito, più complessa di così, e l’Occidente rischia una volta di più di lasciarsi fuorviare dalle etichette procedurali. ASSK, questo l’acronimo, è giunta al potere attraverso un processo decisamente non comune e gravido di conseguenze. Il regime militare precedente, che ha governato ininterrottamente (seppur con vari volti) dal 1962 al 2015, non è scomparso dalla scena politica, anzi. Si è tutt’al più fatto da parte, più o meno volontariamente.
Rimane un elemento centrale dello stato, con amplissime sacche di potere che è determinato a mantenere. Da un lato l’USDP (Union Solidarity and Development Party), il partito dei “civilianized military”, continua a rivestire un ruolo, nonostante i recenti rovesci elettorali. Dall’altro, il Tatmadaw (l’esercito birmano) è in un certo senso il vero key actor in Myanmar, agisce fuori dal controllo di ASSK e spesso mette il governo davanti al fatto compiuto. In questo, assomiglia molto all’esercito imperiale giapponese degli anni ’30, che organizzava spedizioni militari (e.g. in Manciuria) in modo del tutto indipendente da Tokyo. Le possibili conseguenze dello scollamento governo-militari sono di per sé evidenti, guardando alla storia.
Myanmar: una storia di regime
Per capire la peculiarità dell’attuale situazione birmana, bisogna rifarsi alla sua peculiare storia recente, densa di eventi. Il Myanmar (Birmania, fino al 1989) è indipendente dal 1948, anno in cui si staccò dalla Gran Bretagna. Il “padre fondatore” dello stato è Aung San, genitore di ASSK, che riuscì a conquistare l’indipendenza grazie a una politica molto pragmatica e opportunista, alleandosi prima coi giapponesi e poi con gli inglesi stessi. Fu inoltre fondatore sia del Tatmadaw che del CPB (Communist Burma Party), da cui presto si staccò e dalle cui ceneri nacquero tre dei movimenti insurrezionali che ad oggi più impensieriscono la tenuta dello stato centrale. Il momento chiave fu invece la Conferenza di Panglong, in cui si riuscì a riunire sotto un unico ombrello tutte le istanze etniche del paese. A costo però di alcuni compromessi, che causeranno non pochi problemi negli anni successivi.
Cinquant’anni di regime
Seguirono quattordici anni di governo civile, nella figura di U Nu, fino al colpo di stato nel 1962. Il generale Ne Win comandò fino al 1988, anno delle straordinarie proteste Four Eights a Yangon, la capitale. ASSK scese personalmente in piazza e tenne un discorso dal fortissimo impatto emotivo, ma la rivolta fu aspramente repressa nel sangue. Il governo concesse comunque una tornata elettorale nel 1990, convinto di poter dirigerne l’esito, ma così non fu. Il giovane partito NLD di ASSK, allora agli arresti domiciliari, ottenne una vittoria straordinaria che sconvolse i vertici del regime. Ne Win fu rimpiazzato da Tan Shwe e le elezioni vennero “reindirizzate” verso la creazione di una Costituente, essendo stata quella del 1947 sospesa “de facto” all’instaurazione del regime.
Il Myanmar trascorse anni neri, sia politicamente che economicamente, oppressa da fortissime sanzioni internazionali. Poi, qualcosa iniziò a cambiare. Le croniche insurrezioni etniche iniziarono a creare meno problemi grazie all’ottimo lavoro di Khin Nyunt, leader del Tatmadaw, e l’adesione all’ASEAN riposizionò internazionalmente lo stato. Il regime si liberalizzò lentamente e la Rivoluzione Zafferano del 2008 segnò il definitivo cambio di marcia. Nel 2010 Tan Shwe fece un passo indietro e lasciò la strada a un governo civile (ma sempre di militari “senza divisa”) di Thein Sen. Infine, nel 2015, alle prime elezioni realmente competitive, l’NLD di Aung San Suu Kyi ottenne una straordinaria vittoria e prese il controllo del paese. Solo pochi mesi fa, nel 2020, l’NLD si è ripetuta e ASSK ha mantenuto la carica di Consigliere di Stato.
La transizione politica birmana
Ma come ha fatto l’NLD ad ottenere il potere così linearmente? La cosa che sorprende è che il Tatmadaw non ha attraversato alcun momento di crisi, anzi. Eppure ha di fatto costruito di sua mano, tramite il processo di liberalizzazione avviato nel nuovo millennio, il sistema che poi l’ha sconfitto alle urne. Non un fatto scontato, per un regime abituato a comandare in modo dittatoriale da mezzo secolo. Certamente ha rivestito un ruolo importante l’opposizione al governo, che per decenni è rimasta salda sui suoi principi e ha continuato a lottare per democrazia e diritti umani. In questo senso, il ruolo di Aung San Suu Kyi è stato esemplare e la sua figura merita senza riserve le lodi della comunità internazionale.
Le proteste dei monaci buddhisti poi, nel 2008, hanno accelerato il processo di liberalizzazione portando il governo ad approvare rapidamente la Costituzione promessa, e ad indire elezioni. A quel punto, come una pietra rotolante, la transizione ha preso piede. Prima una risicata vittoria dell’USDP in elezioni corrotte, poi una sua nettissima sconfitta alle prime elezioni free and fair. Le reali ragioni per cui il Tatmadaw non abbia ribaltato anche questo esito delle urne non sono ancora certe. Ciò che è sicuro è che ha deciso, a conti fatti, di accettare pacificamente il cambio. E non solo: ha anche approvato la leadership di Aung San Suu Kyi, la stessa donna che per anni l’esercito e il regime si erano preoccupati di neutralizzare.
La politica del Tatmadaw
Un elemento aggiuntivo per sottolineare fino a che punto il Tatmadaw ha accettato, fin quasi a sostenere, il cambio di leadership. La Costituzione birmana del 2008 conteneva, tra le altre disposizioni, una norma ad personam contro Aung San Suu Kyi. Nello specifico, la carica di Presidente non era esercitabile da chi avesse il marito, o i figli, stranieri. E il marito di ASSK era, ovviamente, straniero: inglese per la precisione. Nel 2015, per aggirare il problema (e la Costituzione), ella decise di istituire, la carica di Consigliere di Stato, e se la assegnò. Da allora il Myanmar ha avuto due diversi presidenti, ma quando si pensa al leader dello stato, nessuno ha dubbi sul chi sia davvero a sedere nella stanza dei bottoni. E il Tatmadaw ha accettato anche questo ulteriore passo in avanti. Che sia l’ultimo, e non si pensi di esagerare, ci ha tenuto a precisare l’esercito. Ma intanto così stanno le cose.
Come prevedibile però, il passo indietro del regime è avvenuto tenendo ben salde una serie di prerogative e di garanzie. Il Tatmadaw conserva il 25% dei seggi in Parlamento a prescindere da qualsiasi risultato elettorale, al quale unisce i seggi conquistati grazie all’USDP. Se si considera che questo sistema si basa sulla Costituzione, e che per cambiare la Costituzione serve il voto favorevole del 75% + 1 del Parlamento, il gioco è fatto. Inoltre, l’esercito birmano mantiene anche tutti i suoi privilegi in ambito di budget, di giustizia, di controllo dell’economia, di gestione delle insurrezioni.
Il Myanmar di oggi
Parliamo di un paese che non ha mai davvero fatto i conti con il proprio passato. L’attuale governo di ASSK, pur apparendo a prima vista un miracolo idealista, è più che altro il frutto di un’operazione politica molto intelligente. La stessa parabola del Nobel 1997 ha una serie di ombre che è ormai difficile ignorare: le immagini del suo insediamento nel 2015, con tutte le strette di mano ai passati vertici militari e politici, sono girate molto nei media birmani. Il che non significa voler ridimensionare la luce positiva che emana la leader della NLD, che è sicuramente una delle grandi figure dell’ultimo secolo: semplicemente, bisogna riconoscerne i limiti per comprenderne le difficoltà. Molte dei problemi dei suoi ultimi cinque anni di governo, internazionalmente riconosciuto come un lustro a dir poco “tiepido” (anche volendo tacere la questione Rohingya), derivano proprio dai limiti che ha ereditato da una così peculiare transizione. Il ruolo del Tatmadaw, che pur ha accettato il suo insediamento, è un convitato di pietra che pesa molto in politica interna.
Un ottimo esempio dell’ingerenza dell’esercito negli affari interni, che Aung San Suu Kyi è costretta ad accettare, riguarda la gestione delle insurrezioni. Il Myanmar è un paese multietnico e multireligioso, incastrato in un contesto geopolitico che tende ad esaltare le etnie secessioniste. Un esempio: quando Aung San riuscì quasi per miracolo a riunirle tutte a Panglong, evento che lanciò l’indipendenza birmana, dovette accettare un compromesso: dieci anni di tempo per ciascuna regione autonoma per scegliere la secessione. Nonostante nessuno abbia esercitato questa prerogativa, il percorso era stato tracciato. Da allora, un’amplissima galassia di movimenti insurrezionali è emersa in modi estremamente vari e ogni governo ha dovuto occuparsene.
Problemi attuali: le insurrezioni
Da un lato, vi sono alcuni grossi gruppi armati nati dalle ceneri dell’ex-Partito Comunista, e spalleggiati dalla Cina. Dall’altro, tutta una serie di movimenti sorti su base etnica: Shan (filo-cinesi), Kachin, Karen, Rakhine (sul confine con il Bangladesh, zona anche dei Rohingya). Il Tatmadaw ha gestito il tutto per anni durante il periodo del regime, alternando bastone e carota verso gli insorti, e comunque preferendo sempre un approccio bilaterale con ciascun gruppo. Solo recentemente, dopo la liberalizzazione del regime, si è provato ad adottare un approccio multilaterale, riunendo sotto un unico accordo tutti i gruppi. Di fatto però, i risultati sono stati piuttosto scarsi.
Aung San Suu Kyi ha potuto per ora fare molto poco nella gestione di questo che è uno dei problemi centrali del Myanmar. Questo perché, come già detto, è l’esercito ad avere concretamente in mano le operazioni. Abituato com’è a gestire autonomamente la situazione da decenni, continua solo a fare ciò che ha sempre fatto. Ma per la leader della NLD, le difficoltà sono anche politiche. Non è chiaro quanto la sua posizione, guadagnata dopo infinite peripezie, sia a prova di ordigno. La sfida frontale al Tatmadaw non è né auspicabile né sostenibile, per la National League of Democracy. Al contempo, la politica interna rischia di essere zoppa in partenza, per via delle quote parlamentarie e dal grande sistema di tutele che l’esercito possiede. Un circolo vizioso, da cui non è semplice intravedere una via d’uscita. Aung San Suu Kyi e il Tatmadaw rischiano, in modo assolutamente paradossale, di veder ossificare la propria collaborazione, in futuro. E di bloccare il Myanmar in uno stallo assolutamente deleterio per il futuro della nazione.