Negli ultimi mesi sono riemersi i ricordi delle terribili tragedie che hanno costellato i secoli della dominazione europea, occasioni in cui figure istituzionali dei paesi coinvolti hanno ammesso apertamente le proprie colpe. Per primo Emmanuel Macron lo scorso 27 maggio in visita ufficiale in Ruanda ha dichiarato che la Francia ha avuto «un ruolo, una storia e una responsabilità politica» nel genocidio dei Tutsi del 1994. Pochi giorni dopo, un altro storico annuncio ha seguito la dichiarazione di Macron: la Germania ha ufficialmente riconosciuto il genocidio degli Herero perpetrato dalle truppe coloniali tedesche in Namibia. Il Ministro degli esteri tedesco Heiko Maas ha annunciato anche lo stanziamento di più di 1 miliardo di euro per compensare i danni perpetrati tra il 1904 e il 1907.
Lo stesso 27 maggio, in Canada l’associazione degli indigeni Tk’emlups te Secwépemc (TteS) ha annunciato una macabra scoperta. Nei pressi di un ex collegio della città di Kamloops nel British Columbia, ha trovato una fossa comune dove giacciono i resti di 215 bambini nativi. Un altro ritrovamento è avvenuto il 24 giugno, quando il gruppo indigeno dei Cowesses ha rilevato 751 tombe anonime nei pressi di un altro ex-collegio nella provincia del Saskatchewan. I ritrovamenti hanno provocato lo shock e l’indignazione delle comunità indigene canadesi e di tutto il mondo, riaprendo ferite mai rimarginate.
I bambini nativi nelle scuole residenziali
Il Canada ha condotto una politica di sequestri che ha coinvolto circa 150.000 bambini nativi strappati alle loro famiglie dalle autorità canadesi. Essi sono stati affidati alle “Indian Residential Schools“, una rete nazionale di orfanatrofi operanti in tutto il paese tra il XIX secolo e gli anni ’70, gestiti per lo più dalla Chiesa cattolica. Lì venivano costretti ad abbandonare le proprie lingue e tradizioni e a rinnegare la propria cultura. Infatti, l’obiettivo del governo di Ottawa era l’assimilazione forzata dei bambini indigeni nella cultura dominante bianca-anglosassone, incidendo pesantemente sulla conservazione della loro identità.
Le condizioni di vita all’interno delle scuole residenziali canadesi erano malsane a causa della noncuranza dei responsabili e dei pochi fondi ricevuti dal governo. Regolarmente divampavano epidemie di morbillo, tubercolosi e influenza, e i bambini soffrivano per la malnutrizione e il freddo. Alle carenti condizioni sanitarie si aggiungevano le vessazioni e gli abusi sessuali. La mortalità era molto alta e fino ad oggi i luoghi esatti delle sepulture non si conoscevano, tant’è che spesso l’opinione pubblica considerava i cimiteri di massa delle leggende urbane. Le morti sono state almeno 3.201, anche se il bilancio è sicuramente molto più alto per via dei decessi non riportati e della distruzione di molti documenti che attestavano la tragedia.
L’assimilazione forzata come “genocidio culturale”
Analogamente al caso del Canada, anche altri paesi hanno messo in atto politiche simili nei confronti delle minoranze nazionali. L’esempio più attuale è dato dalle sistematiche violazioni dei diritti umani da parte della Cina nello Xinjiang, in cui le autorità portano avanti una politica repressiva di “sinizzazione” della minoranza uigura nei campi di rieducazione. Un altro esempio è dato dall’insospettabile Svizzera, dove tra il 1926 e il 1973 le autorità elvetiche sotto l’egida della fondazione Pro Juventute strapparono alle loro famiglie circa 800 bambini di etnia Jenisch, il popolo dei “nomadi bianchi” di origine germanica da tempo discriminato nel paese. I bambini dovevano essere trasformati in «persone sedentarie e laboriose» all’interno di famiglie svizzere in cui subivano pesanti violenze e abusi.
Possiamo dire che eliminare l’identità di un popolo tramite l’assimilazione all’etnia dominante si tratti di una forma di genocidio? Le interpretazioni più ampie confermano questa tesi. La definizione di genocidio adottata dall’ONU nell’Articolo II della Convenzione del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio comprende la distruzione di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso anche tramite il «trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro».
Tuttavia, l’espressione “genocidio culturale” viene citata per la prima volta nel 1994 nell’articolo 7.d della bozza della dichiarazione dell’ONU sui diritti delle popolazioni indigene. Esso affermava che le persone indigene hanno il diritto collettivo e individuale a non essere soggetti a «etnocidio e genocidio culturale», inclusa «ogni forma di assimilazione o integrazione con altre culture o stili di vita imposti loro con misure legislative, amministrative o altre».
Sebbene la dichiarazione ufficiale dell’ONU non utilizzi più tale espressione, l’attuale definizione di genocidio include al suo interno anche la componente culturale e identitaria.
La forza di ammettere le proprie responsabilità
Assieme alle dichiarazioni del governo francese sulle responsabilità in Ruanda e di quello tedesco riguardo lo sterminio in Namibia, i ritrovamenti nelle ex-scuole residenziali canadesi hanno riconfermato la stagione di nuove ammissioni di colpa da parte delle istituzioni di questi paesi. Le vicende che hanno recentemente coinvolto il Canada danno l’esempio di come rielaborare il proprio passato e agire attivamente per compensare le minoranze per il torto subìto sia un segno di grande maturità politica.
Quest’anno la festa nazionale del Canada, il Canada Day celebrato il 1 luglio, è stata una giornata più amara del solito. Nel sito governativo del Canada, il governo ha rivalutato la celebrazione come un’occasione per riflettere sulle violenze commesse in passato, nonché per partecipare al dolore delle comunità indigene nel nome dell’unità del paese.
Il primo ministro canadese Justin Trudeau ha porto le sue scuse e ha promesso di far luce sulle sofferenze che migliaia di bambini nativi hanno dovuto subire. Anche Papa Francesco ha espresso rammarico, parlando di giustizia e riconciliazione. Tuttavia, nei giorni successivi ai ritrovamenti sono state date alle fiamme quattro chiese cattoliche e sono stati compiuti altri vandalismi contro le strutture religiose, fatti che evidenziano la difficoltà nella riconciliazione.
Affrontare il proprio passato violento è sempre stata un’operazione delicata. Non per nulla si tratta di un percorso che alcuni paesi tuttora non hanno intenzione di intraprendere. Basti pensare al negazionismo di Stato della Turchia, incapace di riconoscere le atrocità compiute a inizio ‘900 contro armeni, greci e assiri. Oppure le scuse “incomplete” del Giappone a Cina e Corea del Sud per le violenze commesse durante la Seconda guerra mondiale.
Infine, c’è da chiederselo: quando arriverà il momento in cui l’Italia farà veramente i conti con il suo passato coloniale, molto spesso rimosso o sminuito nelle sue atrocità?