Una posa languida, il ventaglio di pavone sensualmente appoggiato su una coscia, l’iconico narghilè sulla destra e lo sguardo fisso verso lo spettatore, sfidandolo a guardarla. La grande odalisca di Jean-Auguste-Dominique Ingres (1814) è forse uno dei dipinti che meglio esprime l’immagine che per secoli l’Occidente ha avuto dell’Oriente. La visione di una terra fatta di harem dai tappeti variopinti, donne sensuali, fumo, profumi di spezie, voluttà.
Peccato che Ingres, come molti altri artisti, in Arabia non ci abbia mai messo piede. Chi è allora la donna rappresentata? Di fatto, una dama europea dell’800: la pelle bianca, gli occhi azzurri, la posa che rimanda alla grande arte europea. Il volto è privo di tratti caratteristici, benché Ingres sia riconosciuto come uno dei massimi ritrattisti tra i suoi contemporanei. Questa spersonalizzazione trasforma la sensualità in un oggetto e la rende la vera protagonista del dipinto. In un’epoca in cui la donna occidentale vedeva costretto il proprio corpo in corsetti e abiti che la coprivano quasi totalmente, gli artisti rappresentavano l’irrappresentabile trasportandolo in luoghi esotici. Il turbante e i gioielli trasferivano infatti le scene di nudo in luoghi lontani e le rendevano accettabili agli occhi del pubblico.
Il “mito” dell’Oriente
Da dove ha origine allora il “mito” che molti pittori dell’800 si creano dell’Oriente? Il termine “esotismo” indica il gusto, la ricerca e l’uso di oggetti estranei alle tradizioni locali e le emozioni scaturite dal pensiero o dal contatto con paesi stranieri. È però anche il modo in cui nell’arte si esprime il nostro pregiudizio verso l’Oriente. A partire dall’800 questo sentire diventa più rilevante perché si accorda con varie tendenze dell’epoca: il colonialismo, la rivoluzione industriale e la poetica romantica della distanza e dell’evasione.
I grandi viaggi di scoperta e le successive colonizzazioni fanno penetrare in Europa oggetti, racconti, stampe e le prime testimonianze fotografiche dai paesi più lontani. È su queste che si forma l’immaginario degli artisti e scrittori detti orientalisti.
Negli stessi anni viene tradotta in Francia la raccolta di novelle arabe “Le Mille e una notte” e l’Oriente diventa il luogo dalla vita intensa e voluttuosa per eccellenza. Agli occhi degli europei in questi paesi era possibile sperimentare quella sensualità che la loro società censurava.
Inoltre, di fronte allo sfruttamento del lavoro nelle fabbriche, al logorio e al grigiore della vita cittadina si iniziavano a idealizzare realtà considerate sottosviluppate, ma piene di lati pittoreschi e da fiaba. È nei paesi esotici d’altronde che Rousseau ambienta il suo “mito del buon selvaggio”, Puccini, Verdi e i grandi lirici le loro strazianti storie d’amore.
Il critico letterario Edward Said, con il saggio “Orientalismo”, per primo ha posto l’accento su queste tematiche, dando il via agli studi postcoloniali. Secondo lo studioso, dalla colonizzazione occidentale del Medio Oriente nel XVIII secolo, l’arte ha avuto una visione “paternalistica” del mondo orientale. Esso è stato raffigurato come incivile, esotico, pericoloso e inadatto allo sviluppo tecnologico. Questo atteggiamento però non ha spinto al confronto tra culture diverse, ma ha solamente autoaffermato l’identità di un’Europa che si considerava superiore, sviluppata e razionale. I popoli orientali raramente hanno avuto la possibilità di esprimersi e sono invece diventati oggetto di una descrizione che giustificava il controllo e l’influenza nei loro territori.
Gli harem tra fantasia…
A subire il fascino dell’Oriente è stato certamente anche Eugene Delacroix. Il pittore nel 1832 lascia infatti la Francia per compiere un viaggio in Algeria. Tra i dipinti frutto di questi soggiorni Donne di Algeri nei loro appartamenti, realizzato nel 1834, ha riscosso un immediato successo. Il quadro solleticava gli aspetti più licenziosi di una società francese imperniata dalle proibizioni del tempo. Un gruppo di donne conversa tra tappeti variopinti, stoffe pregiate, pareti decorate da piastrelle, fumando l’immancabile narghilè. La forte luce del sole penetra nella stanza e gioca con le ombre dei drappeggi creando un’atmosfera di languida voluttà.
A prima vista potremmo credere che il dipinto sia una rappresentazione fedele e realistica della realtà dell’harem. È però improbabile che Delacroix abbia avuto l’occasione di entrare in questi luoghi privati, riservati alle donne e di certo non aperti a visite “turistiche”. Ancora una volta quindi quello dipinto è l’Oriente visto con gli occhi di un uomo occidentale. Il fascino del proibito e l’inaccessibilità rendeva infatti gli harem luoghi idealizzati in cui gli artisti proiettavano un mondo totalmente immaginario.
… e realtà
Tantomeno Delacroix può aver ritratto una donna del posto. Esse erano una componente della società quasi invisibile, che nei rari incontri sociali che avvenivano indossava il tradizionale velo. Non poteva esistere perciò un vero e proprio canone estetico della donna araba. Le algerine dei dipinti ottocenteschi spesso non sono che traduzioni pittoriche della fantomatica Sheherazade. Un “mito” della donna musulmana, che era soltanto la proiezione della bellezza come era concepita in Occidente. A partire dal ‘700, la donna europea per attrarre doveva essere esteticamente piacevole, sensuale, ma non necessariamente intelligente. Nel vicino Oriente invece la donna affascinava anche per la sua capacità dialogica e l’abilità nella danza e nel canto. Nella competizione all’interno delle mura dell’harem, in cui erano in gioco la vita della donna e dei suoi stessi figli, coloro che non padroneggiavano queste abilità non facevano “carriera”.
La scrittrice e sociologa marocchina Fatema Mernissi parla in molti libri dell’infanzia che ha vissuto in un harem. Descrive le reali dinamiche e i rapporti di potere di questi luoghi confrontandole con l’immaginario occidentale. Mernissi critica un Occidente che vanta pari diritti per uomini e donne, ma che spesso non tollera che una donna meno attraente compaia nei contesti con più risonanza mediatica. Alla televisione per esempio, uno spazio che vede come il riflesso della nostra società, il classico ruolo femminile nei programmi più seguiti è spesso quello di spalla del conduttore. E mentre per gli uomini l’aspetto esteriore non è così rilevante, anche le giornaliste, oltre a essere competenti, devono essere esteticamente belle.
Gauguin: anticolonialismo…
Nel 1892 Paul Gauguin dipinge Lo spirito dei morti veglia (Manaò tupapaú). Finalmente ad essere rappresentata è realmente una donna tahitiana, che l’artista conobbe in uno dei suoi molti viaggi in Polinesia. Inizialmente impiegato di un agente di cambio, nel 1891 Gauguin abbandona infatti la vita parigina e parte per l’Oceania dove rimarrà, escluso un breve ritorno, fino alla morte.
A differenza dei pittori precedenti, Gauguin nei suoi dipinti accentua gli elementi caratteristici delle culture che incontra, la fisionomia della popolazione, gli usi e i costumi. Così nei suoi dipinti compaiono idoli, allegorie di animali, riferimenti a miti e divinità delle religioni tahitiane. Sono stati inoltre ritrovati molti articoli in cui il pittore critica gli abusi dei missionari cattolici e dei funzionari francesi, schierandosi a difesa dei nativi del posto.
…e stereotipi
Tuttavia, anche l’esotismo di Gauguin non è privo di aspetti controversi. Un dipinto come Manaò tupapaú rivela ancora l’adesione a una visione frutto dello stereotipo della propaganda coloniale. La ragazza ritratta è Teha’amana, la giovane amante tahitiana del pittore. Nel rappresentarla Gauguin inserisce numerosi riferimenti alla grande arte europea dei veneziani e dell’Olympia di Monet. Emblematica è però la scelta della posa. La donna di Monet, adagiata tra le lenzuola sgualcite, è sicura della sua posizione e mostra il suo corpo nudo senza timore.
Teha’amana è invece rappresentata prona sul letto: in questo modo Gauguin nasconde gli attributi sessuali femminili caratteristici delle scene di nudo. Ma proprio per questo la raffigurazione si fa ancora più perturbante: la ragazza invoglia quasi il pittore-spettatore a dominarla. La concezione che sottostà al ritratto è ancora quella di predominio che Gauguin e gli occidentali avevano nei confronti di culture considerate inferiori, infantili e completamente in loro possesso.
Cambiare sguardo
Gli studi postcoloniali e la conoscenza delle violenze perpetrate su questi popoli da parte dei colonizzatori europei hanno portato a chiedersi quale sia il modo giusto di guardare a queste opere. Dobbiamo considerare innanzitutto che i pittori orientalisti furono il “prodotto” del loro tempo. La maggior parte di essi fu inconsapevole dello sguardo distorto con cui guardava all’Oriente e alla rappresentazione della donna.
Ma oggi la sensibilità e l’attenzione verso questi temi e la conoscenza degli aspetti più scorretti dell’operato di questi artisti devono portarci a sviluppare una consapevolezza più critica. Questo non significa demonizzare totalmente i dipinti che costituiscono la nostra storia dell’arte. Accanto alla celebrazione del grande artista dobbiamo però evidenziare anche i lati più controversi dell’uomo. Dobbiamo inoltre permettere ai popoli che sono stati sottomessi di avere una voce nel modo in cui viene descritta la loro rappresentazione. Se non possiamo cancellare lo sguardo scorretto che abbiamo avuto in passato verso queste culture, dobbiamo però riconoscerlo e migliorare il nostro sguardo presente.