Il 31 Gennaio 2020 il Regno Unito uscirà dall’Unione Europea, ormai questo è indubbio, ma cosa accadrà dopo?
Una delle principali critiche che gli europeisti hanno rivolto ai sostenitori del leave fu quella di miopia. Ovvero, una scarsa lungimiranza dovuta a ignoranza in merito al funzionamento e alla struttura delle istituzioni europee che sono state strumentalizzate da politici di destra per i propri fini elettorali.
In realtà, sebbene gli stessi ministri Tories non ne abbiano praticamente mai parlato, i portabandiera dei Leavers dispongono di una strategia, molto vecchia, che è stata rispolverata dopo essere stata tenuta per anni all’interno di un cassetto: trasformare il Regno Unito da potenza regionale europea ad attore globale di primaria importanza.
Ma non l’hanno mai dichiarata apertamente , poiché sarebbe entrata in conflitto con le promesse elettorali della recente campagna Tory, basata sul contrasto all’immigrazione irregolare, comunitaria ed extracomunitaria.
Le origini di tutto si riscontrano nel clima politico inglese del secondo dopoguerra. La vecchia superpotenza globale del Regno di Gran Bretagna e Irlanda del Nord dovette subire un radicale ridimensionamento delle proprie ambizioni imperiali.
Nel corso delle due decadi tra il 1945 e il 1965, nonostante la forte crescita economica e il recupero industriale in seguito al secondo conflitto mondiale, la corona inglese dovette assistere impotente alla trasformazione del suo centenario impero in una debole organizzazione internazionale, il Commonwealth delle nazioni. Il quale si formò da stati che riconoscevano una sorta di primato d’onore al Regno Unito , pur perseguendo politiche proprie.
Il crollo dei possedimenti coloniali , la trasformazione della “special relationship” con Washington D.C. che si era trasformato in un rapporto di sudditanza, e i disordini all’interno del Regno erano scoppiati. Una nazione che “Non era più un Impero, ma non aveva ancora ritrovato un posto nel mondo” secondo le parole di uno sconosciuto funzionario diplomatico americano degli anni ’60 presso l’ambasciata Americana a Londra, che rappresentavano al meglio i sentimenti inglesi della fine della quinta decade del secolo ventesimo.
Il tentativo Tory negli anni ’50 di mantenere una impronta di interventismo imperiale fallì miseramente con l’avventura di Suez del 1957. Un loro primo tentativo di avvicinarsi alle Comunità Europee fu bloccato dal veto francese di De Gaulle, il quale volevo prendere il posto inglese nello scacchiere europeo.
Questi insuccessi portarono alla irrilevanza politica i Tory per buona parte degli anni ’60 e i Labour ripresero il potere. Quest’ultimi bloccarono ulteriormente le aspirazioni coloniali velleitarie del Regno Unito, accettando un ruolo ridimensionato della Gran Bretagna nello scacchiere globale. Tuttavia annaspavano ancora nel tentativo di creare una coerente politica di cooperazione internazionale che non si basasse sull’essere “la colonia di una ex-colonia”. Vennero formulate diverse proposte, tra cui una che divenne popolare tra i politologi dell’epoca dopo il veto all’ammissione alla CEE: la realizzazione di una “Global Britain“.
Che impatto ebbe la Global Britain?
Se non conoscete il termine, vi do una definizione qui. La Global Britain è una strategia geopolitica che mira a rendere il Regno Unito il paese di riferimento del Commonwealth Britannico tramite delle manovre di avvicinamento e di aiuti economici. La strategia comprende anche sfruttare il primato educativo delle università dell’Inghilterra e il predominio finanziario della città di Londra a livello globale per rinsaldare i legami esistenti tra gli alleati e trovarne dei nuovi.
Sembra la copia del vecchio programma del primo ministro conservatore Theresa May quando assunse l’incarico, ma in pochi sanno che questa fu la principale strategia in politica estera degli anni ’60 sia dei governi laburisti, sia dei governi conservatori sotto sua Maestà. In verità, ebbe anche un discreto successo all’epoca.
Pochi infatti ricordano della organizzazione rivale della Comunità Economica Europea ( la versione 1.5 dell’attuale Unione), ovvero l’EFTA (Associazione di libero scambio Europea) che raggiunse il proprio apogeo verso la fine degli anni sessanta. I paesi membri erano di minore importanza economica rispetto alla alleanza del carbone e dell’acciaio, ma questo non importava all’entourage politico inglese.
Il Regno Unito stava nel frattempo rinsaldando i legami con i vari reami del Commonwealth, nella speranza di creare una sorta di EMPIRE 2.0 tra i paesi che nell’Isola Britannica avevano il principale partner commerciale con l’obiettivo di creare un unione doganale di livello globale. Tutto questo mentre l’EFTA permetteva al Regno di continuare a influire gli affari del vecchio continente, rimanendo fuori dalla sua organizzazione principale. Così rispettava contemporaneamente la propria collocazione come paese europeo e la vocazione di nazione insulare. Il futuro sembrava roseo, ma qualcosa andò storto.
Bè, come al solito la colpa fu dei Conservatori. O meglio, fu di un Conservatore in particolare, un veterano della politica d’oltre manica. Enoch Powell, che con un famoso discorso elettorale contribuì a far ritornare i Conservatori a dominare il parlamento e … A far naufragare definitivamente il sogno della Global Britain per le decadi a venire.
Il crollo della Britannia Globale
Sir Enoch Powell era stato uno dei protagonisti fondamentali della politica inglese, definito da molti il “perdente più incisivo della nostra storia” in omaggio a tutte le volte in cui provò a diventare primo ministro e leader del Partito Conservatore.
Enoch era estremamente colto e dotato di una rara intelligenza, culturale ma non brillava per doti politiche. Non si era mai rassegnato al crollo del prestigio globale inglese e vide nella politica estera una scarsa lungimiranza. In poche parole, non si era mai rassegnato al crollo dell’impero e al mancato ruolo di sovranità politica che la Gran Bretagna non esercitava più a livello globale, se non tramite la logica dello “soft power”. Inoltre, era enormemente preoccupato del problema della immigrazione dalle ex colonie e dai Reami e dalle Repubbliche della Corona legate al Commonwealth, e delle possibili ripercussioni sociali che essa poteva avere sulla popolazione originaria del regno.
Prima del 1968, infatti, non c’era nessuna distinzione legale tra l’essere cittadini del Commonwealth ed essere un suddito britannico. Se vivevi in una ex colonia inglese o in un dominio, avevi lo stesso diritto di vivere nel Regno Unito e di lavorare in loco come un cittadino nato e cresciuto a Londra.
Si stima che per via di questa vuoto legislativo all’incirca tre milioni di persone in trent’anni abbiano raggiunto la Gran Bretagna. Un numero mai raggiunto in nessun altro periodo della storia delle Isole Britanniche ( per darvi un’idea del fenomeno, vi basta sapere che attualmente due terzi della minoranza di religione induistica/ islamica e Sikh ha origine da quella massiccia immigrazione). Questo causò ovviamente dei problemi di adattamento che furono sottovalutati dai due gruppi politici inglesi.
I Labour erano fautori della decolonizzazione pacifica. Avere politiche di restringimento dell’immigrazione era contro gli ideali del Partito. I Conservatives invece volevano continuare a mantenere una forte influenza sulle politiche interne di quei paesi anche dopo l’indipendenza, e questo significava mantenere il libero movimento all’interno del Commonwealth.Entrambi perseguivano il sogno della Global Britain. Quindi era impensabile mettere dei pali fra le ruote nelle relazioni tra le varie ex-colonie e la madre patria.
Enoch Powell invece non era d’accordo. In un famoso discorso alla Camera dei Comuni, paragonando il Tamigi al Tevere inondandato dal sangue dei romani trucidati dai barbari del sacco di Roma, denunciò le problematiche di convivenza della gente comune British con i loro nuovi vicini.
I Labour al potere lo accusarono di amplificare problemi in realtà a malapena esistenti. Tuttavia l’opinione pubblica insorse a favore di Powell, affermando che era stanca della immigrazione selvaggia e della stagnazione economica che avevano colpito il paese dopo il boom economico del dopoguerra.
I Conservatori finsero di rinnegare il pensiero di Powell, ma in una campagna elettorale dominata dal tema dell’immigrazione essi vinsero le elezioni del 1970 tornando al potere dopo sei anni all’opposizione. La promessa era un radicale cambiamento nelle politiche di cittadinanza e di controllo dei flussi migratori.
Enoch Powell fu sostenitore della potenza imperiale della Gran Bretagna, contrario sia al progetto della Global Britain che alla integrazione Europea. Tuttavia, il suo discorso contribuì ad una rinascita degli europeisti in entrambi gli schieramenti e al deciso avvicinamento del Regno Unito al continente. Correvano gli anni ’70.
L’entrata del Regno Unito nello spazio economico Europeo
Harold Wilson, primo ministro laburista inglese tra il 1964 e il 1970 con un secondo breve mandato tra il 1974 e il 1976, era contrario al processo di integrazione europea. Temeva che avrebbe portato fine alla politica di neutralità portata avanti con difficoltà e ad una revisione del welfare state, perni della sua politica. Fu uno dei fautori della prima Global Britain e perseguì lo sviluppo della Efta come alternativa alla Cee.
Nel 1970 perse contro il conservatore Edward Heat, in una campagna elettorale dominata dall’apprensione per l’immigrazione e dalla crisi finanziaria. Il nuovo governo impose un più severo regime di immigrazione che divise definitivamente in tre categorie i cittadini del Commonwealth per limitarne l’immigrazione nella madre patria. Tale sistema di cittadinanza è tuttora ritenuto uno dei più complicati al mondo.
Questa legge ebbe come reazione quella di rovinare il processo di integrazione tra l’Inghilterra e le sue ex colonie. Inoltre, l’effetto dell’Austerity che sfociò nella crisi del 1973 portò molti a credere che il Regno unito avesse bisogno di Partner più stabili rispetto alle vecchie colonie, tramutatesi in economie in via di sviluppo bisognose di prestiti.
Gli Europeisti di entrambi gli schieramenti, silenti sin dagli anni ’50, si rinsaldarono e il Regno Unito incominciò le trattative per richiedere un ingresso all’interno della Comunità Europea. Il processo culminò con l’adesione nel 1973 e il referendum confermativo lanciato dai neoeletti laburisti nel 1975. Due terzi dell’elettorato della Gran Bretagna convalidarono l’adesione alla CEE , l’uscita dall’EFTA ed una diminuzione dei legami con gli altri paesi del Commonwealth. Il destino del Regno sembrava ormai risiedere nel continente, nel bene e nel male.
Nonostante questo, l’adesione alle Comunità Europee fu una scelta più dovuta al pragmatismo economico che ad una reale convinzione. I politici europeisti furono sempre pochi e non tanto influenti. Il sogno di ritornare al vecchio progetto veniva rispolverato ogni tanto per essere usato come arma di ricatto.
Nel corso degli anni ’10 del nuovo millennio, a causa della crescente disaffezione in un paese che non aveva mai creduto fino in fondo al progetto di integrazione Europea, i vecchi sostenitori della GLOBAL BRITAIN ripresero forza e l’occasione di un nuovo referendum.
Trovarono come alfiere l’ex sindaco di una delle città più multietniche del pianeta, il gioiello della Corona Britannica. Un uomo da un ego così smisurato da competere con quello già enorme degli abitanti della città che governava: Boris Johnson. Con la vittoria al Referendum del 2016 e del Referendum confermativo del processo di uscita, la Global Britain sembra essere risorta dalle sue ceneri. Ci si chiede, a questo punto, se il destino che la attende non sia lo stesso del Passato.