venerdì, 20 Dicembre 2024

Giornalismo di guerra al femminile

Avrei voluto scrivere il terzo capitolo di Generazione valigia, ma c’è una deliziosa incombenza che devo trattare. Il mio libro, Giornalismo di guerra al femminile, è stato pubblicato.

Ho scritto diverse volte di giornalismo di guerra per Sistema Critico, esplorando in che modo questa branca del giornalismo si fosse aperta alle donne. Si tratta di studi che porto avanti dagli anni dell’università e che continuano a suscitare in me un incredibile interesse.

Se il tema “giornalismo di guerra al femminile” vi sembra troppo di nicchia, vi sbagliate. Sareste davvero stupiti dallo scoprire quanto le dinamiche che caratterizzano questa sottocategoria sono in realtà applicabili a tantissimi altri ambiti della nostra società. Nel libro si parla delle reporter di guerra che hanno fatto la storia, è vero, ma attraverso le loro storie si parla anche di innovazione, politica, questione di genere e digitalizzazione del lavoro.

Le due giornaliste che ho preso in esame, oltre alle decine che vengono passate in rassegna più o meno approfonditamente, sono Marie Colvin e Anna Politkovskaja. La storia di queste due incredibili donne, morte a causa del loro lavoro, ci può davvero insegnare tanto e offrire spunti di riflessione preziosi.

Cosa ci insegna il giornalismo di Marie Colvin

Punta di diamante del Sunday Times di Londra per i suoi reportage dall’estero, coprì entrambe le guerre del Golfo, il conflitto arabo-israeliano, la guerra in Kosovo, gli scontri a Timor Est, la seconda guerra cecena, la guerra civile in Sri Lanka e tutte le primavere arabe. Nel 2012, a soli 56 anni fu uccisa in Siria dal regime di Bashar al-Assad.

Gli altri giornalisti potevano rimanere ai margini, in relativa sicurezza, ma non Colvin. Non cambiò mai il modo di lavorare, nonostante fosse diventato una fonte di problemi nella sua vita privata. Voleva essere come John Hersey e Martha Gellhorn, concentrati sulle storie delle vittime, ma anche come Oriana Fallaci che aveva costruito la sua carriera intervistando i leader del mondo.

Viaggiò incessantemente, mettendosi spesso in pericolo. Non rispettava i tempi di consegna e non seguiva le direttive del Sunday, ma ogni volta che tornava con un articolo era un successo. Ricoperta di tanti riconoscimenti quante cicatrici, la giornalista ci insegna non solo l’importanza del talento, ma anche l’incredibile differenza che una donna può fare in questo mondo.

Era sopravvissuta a due matrimoni falliti e a diverse gravidanze che non erano mai andate a buon fine. Mentre la sua vita privata cadeva a pezzi, anche a causa della sua carriera, Colvin non si era mai fermata. La cosa cambiò per la prima volta nel 2000 quando decise di andare a raccontare la guerra civile in Sri Lanka. Fu questa l’occasione in cui la giornalista perse la vista dall’occhio sinistro durante una sparatoria. Fu costretta a fermarsi, per prendersi cura di sé e della propria salute mentale avendo cominciato a soffrire di post traumatic stress disorder.

Tornò sul campo poco dopo, nel 2002, per seguire la seconda guerra del Golfo, ma qualcosa dentro di lei era inevitabilmente compromesso. Dopo tutti gli orrori a cui aveva assistito, era impossibile non rimanere segnati. Rallentò, fece meno viaggi, ma quando nel 2010 il gigantesco movimento delle primavere arabe prese vita non poté tirarsi indietro. Andando tristemente incontro alla morte.

Avrebbe potuto scrivere racconti, libri, romanzi, invece Colvin aveva deciso di raccontare l’orrore della guerra. La sua dedizione le costò tutto, ma è stata di estrema importanza per quello che ha fatto conoscere a tutti noi. Denunciò crimini di guerra, intervistò i più emarginati come i più determinanti attori dei conflitti che sconvolsero il mondo.

Marie, che aveva dato un volto e una voce a milioni di persone le cui vite erano state distrutte dalla guerra. Marie, la Martha Gellhorn della nostra generazione, che ora se ne stava lì, immobile tra le rovine di Baba Amr.

Paul Conroy, fotoreporter che si trovava in Siria con lei al momento della morte.

Cosa ci insegna il giornalismo di Anna Politkovskaja

Anna Politkovskaja, gigante del giornalismo di guerra russo, come Colvin perse la vita a causa del suo lavoro, che non aveva mai smesso di fare neanche dopo i sequestri e gli avvelenamenti intimidatori. A differenza della sua collega americana, Politkovskaja si specializzò su un solo conflitto: le guerre cecene.

Il lavoro di Politkovskaja offre di per sé un’incredibile occasione per studiare la Russia a lei contemporanea e il modo in cui il paese decise di rapportarsi con la piccola regione caucasica della Cecenia. Tuttavia, il potenziale dell’opera di Anna è molto più vasto. Il modus operandi del governo russo che la giornalista denuncia nei primi anni 2000, ormai è tristemente riconoscibile. Il risultato dei libri di Anna sembra essere infatti una guida per comprendere in che modo il governo russo, ma soprattutto Vladimir Putin, abbia deciso di condurre ogni conflitto negli ultimi 20 anni.

Tristemente simile alla propaganda utilizzata per giustificare l’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022 è quella adottata per la Cecenia nel 1999. Anche i metodi coercitivi per censurare i giornalisti russi sono gli stessi. Una censura che a Politkovskaja, come a tanti suoi colleghi, alla fine costò la vita. Venne uccisa nel 2006 nell’atrio del suo palazzo. Quello che tutti si aspettavano sarebbe successo a km da Mosca, alla fine si era compiuto a pochi metri dal Cremlino.

Rispetto a molti colleghi e colleghe che si opposero al regime lei fu di certo la più coraggiosa, testarda e soprattutto temuta. Rispetto ad altri giornalisti che spesso sono spinti da una certa incoscienza adrenalinica alla cronaca bellica, Politkovskaja aveva un approccio più diligente e scrupoloso. In più, a differenza di tanti, aveva deciso di testimoniare i crimini di guerra perpetrati dal proprio Stato. Questo faceva di lei non solo una brillante giornalista, ma una coraggiosa dissidente.

Un lavoro, il suo, che da un lato ricorda gli immensi sacrifici a cui va incontro un dissidente che fa luce su un regime oppressore, dall’altro mostra tanto terreno comune tra due episodi distanti più di vent’anni come la guerra in Cecenia e l’invasione dell’Ucraina. Terreno comune legato allo stesso modus operandi, ad una simile propaganda, alle stesse modalità di repressione e, ovviamente, allo stesso mandante.

La seduzione perversa

Oriana Fallaci così definiva il fascino che in lei suscitava la guerra. Un’attrazione legata sia alle emozioni forti e ai rischi legati al campo di battaglia, sia alla consapevolezza che piaccia o meno le guerre sono state costituenti di ordine nuovo dagli albori dell’umanità.

Studiare i conflitti non significa quindi rinchiudersi in una nicchia, ma provare a capire il mondo in uno dei modi più efficaci possibili. Per questo ancora oggi è importante leggere lavori come quelli di Politkovskaja e Colvin: due grandi e diversi punti di vista su come guerra e propaganda hanno plasmato la storia contemporanea.

Le due giornaliste ci hanno spiegato il mondo che hanno conosciuto. Ma hanno anche insegnato che sfidare l’ordine costituito e andare oltre i limiti spesso è fondamentale se si vuole ottenere più spazio nella società, così che le future generazioni possano più comodamente sedersi ai tavoli che prima erano preclusi alle donne. Che siano questi i tavoli della politica, del giornalismo, dello sport o della scienza.

Stavano riscrivendo le regole di genere, in modo tale che il titolo di woman war correspondent non sarebbe stato più visto come un ossimoro.

Sara Valentina Natale
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Sara Valentina Natale. Laureata in Studi Internazionali, ho scelto di proseguire i miei studi con un master in Corporate Communication, Lobbying & Public Affairs a Roma . Adoro scrivere, fare polemica e bere Gin. Aspirante femminista, europeista incallita, sportiva occasionale.

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