Lungo il corso della storia, la società civile si è saputa ritagliare progressivamente maggiori spazi di libertà. A partire soprattutto dall’epoca di costituzione della forma di governo liberaldemocratica, si tende a usare il diritto come strumento di liberazione dell’individuo anziché di oppressione.
Ciò che potrebbe apparire come un’iper-regolamentazione della vita sociale è in realtà un complesso meccanismo di dinamiche interpersonali finalizzato a equilibrare le libertà personali degli individui distribuendole tra loro in modo equo; si tratta di un’operazione di precisione chirurgica, finalizzata a lasciare a tutti il maggiore spazio di libertà possibile senza restringere arbitrariamente quello del prossimo.
Tuttavia, ad un’attenta osservazione non può sfuggire come siano ancora presenti retaggi di oppressione che stonano con il contesto di un sistema basato sui suddetti principii.
Parliamo dei luoghi di reclusione, che nelle società odierne sono molteplici e di variegata natura secondo lo scopo per cui sono pensati.
Carcere: la custodia cautelare
Il luogo di reclusione per eccellenza è sicuramente il regime carcerario, presente in qualche forma in tutti i paesi del mondo.
In Italia, le carceri si suddividono in diversi tipi secondo lo scopo. Le case circondariali sono destinate a persone detenute in attesa di giudizio o condannate a pene inferiori ai 5 anni. Hanno sede perlopiù nei capoluoghi di provincia.
Il ruolo della custodia cautelare non è affatto marginale nel nostro paese; più di un terzo di tutta la popolazione detenuta risulta in attesa di giudizio. Sul piano giuridico, queste persone sono ritenute innocenti fino a prova contraria; si trovano recluse poiché considerate potenzialmente pericolose, la loro reclusione dovrebbe però considerarsi l’extrema ratio fintanto che non siano state giudicate da un tribunale che abbia accertato lo svolgimento dei fatti e la veridicità delle accuse.
Nella realtà non è così, e la presenza di questo tipo di detenuti contribuisce a provocare un periodico sovraffollamento delle strutture carcerarie.
Carcere: le pene
Le case di reclusione sono invece destinate ad ospitare persone condannate in via definitiva per un periodo non inferiore ai 5 anni.
Sia le case circondariali che gli istituti di pena possono, in taluni casi, essere provvisti di una sezione femminile; la permanenza in detenzione resta infatti separata per i due sessi in ogni caso. Gli istituti esclusivamente femminili sono 4 in tutta Italia (Trani, Pozzuoli, Roma, Venezia).
Le donne rappresentano infatti solamente il 4,2% della popolazione detenuta; ciò porta a pensare che la pena della reclusione sia ritagliata sulla figura maschile, sugli stereotipi e sul ruolo sociale che la accompagnano.
In alcuni casi specifici le detenute madri sono separate dai figli, a differenza di altre situazioni per le quali sono presenti luoghi di reclusione per madri per le quali non sia stato possibile trovare soluzioni alternative in case famiglia o in detenzione domiciliare: in questo modo hanno possibilità di rimanere con i figli; si tratta degli I.c.a.m., istituti a custodia attenuata per detenute madri.
Sono presenti cinque di questi su tutto il territorio italiano, le donne possono scegliere di permanervi senza separarsi da figli e figlie in tenera età, poiché sono dotate di spazi e servizi per la crescita del minore. Ma la vita quotidiana è sottoposta alle medesime regole della vita carceraria, e la cosa può avere serie di ripercussioni sulla crescita dei minori. Ad oggi 27 detenute si trovano in tale situazione, stupisce che non sia possibile trovare una soluzione più congrua per un numero di casi così esiguo.
Esistono poi gli istituti penali per minori condannati per reati gravi commessi tra i 14 e i 18 anni, nei casi in cui anch’essi non possano essere affidati a case famiglia.
I minori detenuti in Italia sono 119, ai quali vanno aggiunti 162 giovani under 25 che finiscono di scontare la pena in un minorile avendo commesso il reato prima dei 18 anni. Anch’essi quasi tutti maschi.
Droghe e reclusione
Più di un terzo della popolazione detenuta, condannata e non, è reclusa per reati legati alle droghe: ci sono persone detenute per traffico internazionale di stupefacenti, ma anche tanti piccoli spacciatori al contempo tossicodipendenti.
L’evidenza scientifica sulla dannosità della droga per la salute individuale va oltre ogni ragionevole dubbio. Tuttavia, è questa una ragione sufficiente per criminalizzare un atteggiamento di difficoltà e patologia? Alcune persone cadono in una forma di dipendenza per la quale parlare di libera scelta è fuori luogo; l’unico modo per continuare a procurarsi sostanze di cui il loro corpo ha assoluto bisogno è entrare nel giro di vendite. In tal modo, è possibile ricavare continuamente denaro per nuovi consumi e potersi permettere un rifornimento continuo.
In un atteggiamento di dipendenza come questo, l’approccio migliore non è quello giuridico bensì quello medico; i detenuti tossicodipendenti hanno diritto di essere trattati dai dipartimenti per le dipendenze del servizio sanitario pubblico: questo è possibile quando viene accertato che il detenuto o la detenuta possono accedere al SerT (Servizio pubblico per le Tossicodipendenze). Solo così possono riuscire a spezzare il giogo della salute psico-fisica.
Ma la questione è anche un’altra: i reati legati alla detenzione o allo spaccio di stupefacenti. Le droghe non sono tutte uguali; non si possono paragonare i derivati della canapa (definiti droghe leggere), lavorati di un prodotto esistente in natura, con la tossicità estrema delle droghe sintetiche, per la raffinazione delle quali si necessita di un laboratorio, dunque di investimenti a palese fine di spaccio.
Quindi, per riprendere il discorso iniziale, il tabù che ancora oggi colpisce la tematica delle droghe impedisce un dibattito aperto e una riflessione in merito; per questo, paradossalmente, una depenalizzazione totale di ogni tipo di consumo costituirebbe un primo passo verso il loro abbattimento.
Una regolamentazione della vendita del prodotto leggero aiuterebbe ad avere un controllo sui consumi e sulla qualità delle sostanze, oltre che a sottrarre mercato alla criminalità.
Per le droghe pesanti, invece, si potrebbe pensare ad una fornitura controllata dal servizio sanitario per trattare i casi di dipendenza, come avviene nella Confederazione svizzera.
Disagio psichico e reclusione
Nel nostro paese i manicomi civili hanno una storia decennale e un prestigioso precedente di abolizione; l’Italia è la prima comunità al mondo a decretarne la chiusura totale nel 1978, attraverso la legge 180. In queste strutture le persone potevano essere ricoverate a tempo indeterminato, perdevano i diritti civili e venivano iscritte nel casellario penale.
La chiusura fu enorme passo verso la deistituzionalizzazione del disagio psichico, diventata un esempio da imitare per molti altri paesi.
Lo smantellamento però non si accompagna alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), discendenti dei vecchi manicomi criminali, in cui i condannati affetti da patologie psichiatriche sono stati ospitati fino al nuovo millennio.
L’abolizione di tali strutture è infatti molto recente, e avviene anche in conseguenza di un’inchiesta del Senato che ha appurato condizioni di reclusione orrende al loro interno.
Il loro superamento ha condotto a una nuova istituzionalizzazione del disagio psichico: recentemente sono sorte le R.E.M.S., Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza. Questi luoghi ospitano pochi pazienti in tutta Italia e, a differenza dei modelli precedenti, adottano un approccio curativo che fa un uso minimale della contenzione.
Tuttavia, a causa della scarsità di posti a disposizione, diversi malati psichiatrici che hanno commesso reati restano in stato di reclusione nelle carceri in attesa di accedere ad un posto libero nelle R.E.M.S.
Persone migranti: CPR e centri d’accoglienza
Si potrebbe osare dicendo che le persone più fragili nelle società benestanti siano i migranti provenienti da paesi del terzo mondo.
Un’istituzione totalizzante rivolta a questa categoria di persone è costituita dai Centri per il Rimpatrio (CPR), ex centri di identificazione ed espulsione (CIE); le persone vi si trovano detenute per un’irregolarità di natura amministrativo-burocratica, ovvero la mancanza di un documento che ne attesti la permanenza sul territorio. Vi permangono in attesa di essere imbarcate su un volo di rientro forzato verso il paese di origine.
Si tratta di una violazione della libertà di movimento, peraltro ampiamente discriminatoria poiché si applica ad una categoria di persone in quanto non residenti, spesso provenienti da luoghi cui l’ottenimento di un visto di permanenza di lungo corso per l’Europa non è quasi mai concesso.
Anche i centri di accoglienza per persone richiedenti asilo che giungono nel nostro continente prive di reddito, pur pensati con le migliori intenzioni di sostenere i migranti in difficoltà economica nella prima fase di permanenza, rischiano di trasformarsi in istituzioni degradanti nel momento in cui siano provvisti dei soli servizi di vitto e alloggio.
In tali casi la permanenza prolungata a causa di lungaggini burocratiche, unita all’impossibilità per gli ospiti di accedere a corsi di lingua e altre discipline, formazione in preparazione al lavoro e politiche attive di inserimento li lascia sospesi in un limbo, dovuto sempre alla mancanza di un documento e a una burocrazia oppressiva invece che a servizio del cittadino.
Questo trattamento è figlio di una logica paternalistica e razzista; nella sfera subcosciente, alla popolazione autoctona si trasmette il messaggio che sia bene lasciare queste persone “rinchiuse” per un po’, poiché al loro arrivo non avrebbero sufficiente educazione e raffinatezza per interagire con noi. Pertanto necessiterebbero di un periodo di formazione prima di trovarsi in società.
Non uno studio finalizzato all’arricchimento del loro bagaglio culturale ma piuttosto un tentativo di elevarli, data la loro supposta inferiorità di partenza.
Terza età
Le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) ospitano persone anziane in diverse condizioni. Alcune sono affette da invalidità totali o parziali, altre autosufficienti.
Queste strutture hanno il vantaggio di fornire assistenza medica a persone che i parenti non saprebbero aiutare sul piano pratico; il rovescio della medaglia è che l’istituzionalizzazione dei disagi della terza età contribuisce ad allontanare queste persone dai loro affetti più cari proprio nella fase di maggiore fragilità.
È un risvolto dell’ideologia individualista oggi imperante: abbiamo sempre più servizi a disposizione, eppure siamo sempre più soli. Si coltiva una cultura del rifiuto; si sta in società finché utili alla produttività o alla cura della famiglia. Nel momento in cui non si è più in grado nemmeno di provvedere a se stessi si rischia di essere privati anche del diritto di restare a casa propria.
Sarebbe opportuno valutare il più possibile soluzioni di permanenza e cura a domicilio finché lo stato di salute lo consenta; il trasferimento in istituto, seppure a volte fonte di nuova vita sociale per l’anziano, non dovrebbe essere mai consentito se motivato da desideri familiari di allontanamento del fardello o da situazioni di difficoltà economica. Il welfare dovrebbe provvedere alle cure domiciliari fintanto che non sussista una ragione meramente sanitaria e inderogabile per l’allontanamento.
Prospettive abolizioniste
La Costituzione italiana non menziona alcun tipo di carcere. All’articolo 27 i costituenti hanno scelto di regolare la responsabilità penale, in conseguenza della quale parlano di un generico concetto di “pena”; non sussiste quindi alcun obbligo costituzionale al mantenimento di forme di reclusione.
Se la reclusione è violenza, non si può negare che anche la vita fuori dalle strutture lo sia; lo è la disoccupazione giovanile, quella femminile, la marginalizzazione delle persone migranti, il loro sfruttamento a 3€ l’ora nei campi per la raccolta stagionale della frutta e della verdura.
Il carcere è solo l’ultimo anello di una catena di forme di violenza strutturale all’interno della società; ma poiché la violenza genera altra violenza, sono spesso le condizioni sociali a produrre contesti criminali e dunque, indirettamente, a incentivare la reclusione.
Diversi studi hanno dimostrato come le società più militarizzate, e con un uso più smodato della carcerazione, siano proprio le più insicure. Sarà mai possibile immaginare un futuro di convivenza pacifica e di inclusione, senza reclusione?
La corrente abolizionista oggi sembra ancora un’eresia, ma anche le teorie di Basaglia lo sembravano; eppure, nel corso di due decenni, hanno portato allo smantellamento totale dell’istituzione manicomiale.
Le rivoluzioni culturali si sviluppano spesso per step; un aumento della concessione di pene alternative, una regolamentazione dell’uso di droghe e dei flussi migratori si rivelerebbero misure ampiamente deflattive per gli istituti italiani.
In Europa il cammino è gia tracciato; i paesi scandinavi sono un modello nella gestione delle prigioni e nell’implementazione di misure penali alternative alla reclusione. Riusciremo a diffondere nel mondo tali esempi?