L’espressione flex crops si riferisce a coltivazioni che possono essere utilizzate in modi diversi. Vengono impiegate nella produzione industriale, di cibo e di biocarburanti. Hanno un importante ruolo nella produzione di etanolo e nell’alimentazione animale, soprattutto negli allevamenti industriali. I principali flex crops sono la soia(impiegata nei cibi, alimentazione animale e come biocarburante), il mais(cibi, alimentazione animale, etanolo), la canna da zucchero(cibo ed etanolo) e l’olio di palma(cibo, biocarburante, uso industriale). Grazie alla loro “flessibilità”, queste colture sono diventate un importante tassello nella produzione agricola mondiale, contribuendo allo sviluppo di un modello industriale agricolo basato sulla monocoltura. Non solo hanno contribuito ad un diverso modello di coltivazione e produzione, ma anche di distribuzione e consumo, andando a modificare geograficamente il dove, il come e per chi e che cosa produrre.
I fattori recenti che hanno permesso la diffusione del modello
Tale sviluppo ha avuto il supporto dell’avanzamento tecnologico nel settore dei trasporti e comunicazioni, oltre che nella biotecnologia e biogenetica che hanno permesso la creazione dei cosiddetti semi geneticamente modificati(OGM) il quale utilizzo ancora oggi è molto dibattuto, e di pesticidi. Insomma, il ruolo dei flex crops e la loro incidenza nel sistema agricolo mondiale sono stati possibili grazie a tutti questi fattori ed altri che vedremo, inglobati e interconnessi in quel fenomeno che chiamiamo globalizzazione.
È importante annotare che i diversi utilizzi di una stessa coltura sono una pratica millenaria che ha sempre occupato un ruolo centrale nella società. Ciononostante i flex crops hanno conosciuto un importante aumento nella produzione agricola negli ultimi 12 anni. Bisogna infatti tenere in considerazione i nuovi utilizzi di queste colture, come i biocarburanti, i più recenti sviluppi biotecnologici, come la modificazione genetica dei semi, e la convergenza di una crisi finanziaria, climatica, energetica ed alimentare nel biennio 2007-2008.
Come hanno inciso questi fattori sulla produzione dei flex crops?
La crisi del cibo
Sarà proprio la crisi del cibo a determinare l’aumento dei prezzi delle materie prime alimentari che colpirà tutto il mondo, in particolare gli stati altamente abitati che non dispongono di sufficienti terre per auto sostentamento. Saranno proprio quest’ultimi (Cina, Corea del Sud, India e gli Stati del Golfo) che attueranno nuove politiche sulla produzione e l’approvvigionamento di risorse alimentari, in modo da risolvere e prevenire future crisi alimentari nazionali. Tali politiche, insieme ad investitori privati, multinazionali e istituzioni internazionali porteranno al fenomeno globale del Land Grabbing e contribuiranno alla creazione ed evoluzione di un sistema agricolo mondiale industrializzato, con conseguenze importanti da un punto di vista economico, sociale ed ambientale. Un sistema in cui, ad esempio, come viene descritto da Stefano Liberti nel suo libro “I signori del cibo”, la Cina importa nuove specie di suino ed il modello di allevamento intensivo dal nord America, diventando il primo produttore al mondo di carne di maiale. Allo stesso tempo, per alimentare i milioni di maiali, importa dall’altra parte del mondo prodotti autoctoni cinesi, come la soia, la quale produzione in Cina è stata disincentivata a causa della mancanza di terre disponibili.
Il consumo
È importante anche il ruolo della domanda e, quindi, dei consumatori. L’alto consumo di carne nei paesi industrializzati e l’aumento del consumo da parte del ceto medio emergente nei paesi in via di sviluppo(dove la carne è vista come indicatore di benessere) ha certo contribuito all’incremento della produzione di soia e mais destinati agli allevamenti intensivi e, quindi, ad un modello di sviluppo agricolo basato sulla monocultura.
Altri fattori e settori
Le politiche dell’UE sui biocarburanti, attraverso il pacchetto energia/clima, hanno incentivato gli investimenti nel settore ed aumentato la domanda di biocarburanti(tra cui anche il bioetanolo), che a loro volta hanno contribuito ad un aumento della produzione di queste colture. Una maggiore domanda di soia, mais e olio di palma come materia prima per i mangimi ne hanno determinato un aumento nella produzione, così come una maggiore richiesta di olio di palma e canna da zucchero(per la produzione di etanolo) da parte del settore industriale.(si veda qui)
Le difficoltà iniziali e il ruolo del capitale
I “flex crops” con il loro sistema di produzione a monocoltura hanno due principali problemi: costi iniziali elevati e necessità di tanto spazio. I costi delle tecnologie e, più in generale, i capitali necessari per avviare questi tipi di produzione sono molto elevati, mentre lo spazio è sostanzialmente un problema di fondo di qualsiasi produzione agricola, ma che viene accentuata in un sistema a monocolture che deve rispettare numeri di produzione elevati.
È qui che entrano in gioco i grandi capitali del sistema finanziario. A causa dei loro differenti usi e dei rischi limitati di variazione delle produzioni, attraverso l’uso di semi OGM e pesticidi, le culture flessibili rappresentano ciò che gli investitori cercano: investimenti proficui a basso rischio. Così gli investimenti privati nel settore sono schizzati nel 2007, determinando un aumento della produzione di queste monocolture basato sul sistema di accumulazione di capitale.
Il sistema finanziario e il mercato dei futures
Ma il rapporto tra sistema finanziario e industria agricola è particolarmente controverso. Infatti c’è chi addita proprio l’enorme spostamento di capitale estraneo al settore come causa dell’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari di base che ha portato alla crisi del cibo del 2008 e del 2011. Nell’occhio del ciclone è finito il mercato dei futures delle commodity alimentari, ovvero delle materie prime alimentari, tra cui i flex crops. I futures sono contratti di acquisto e vendita di prodotti in cui il prezzo viene deciso tra le parti, produttore e acquirente, in anticipo rispetto al periodo di produzione. Il loro utilizzo è diffuso nel mercato finanziario per ridurre i rischi di un aumento o un abbassamento dei prezzi causati da futuri mutamenti del mercato(come, ad esempio, nel caso del settore agricolo, una stagione di carestia o una malattia che colpisce i raccolti). Teoricamente i futures dovevano rappresentare l’andamento dei prezzi cash nel mercato reale. Se il prezzo della materia scambiata nel contratto aumenta, i prezzi dei futures aumentano. Sostanzialmente il prezzo future registra l’andamento “atteso” (ciò che potrebbe essere) del mercato, mentre il prezzo cash ne registra l’andamento reale. Questi tipi di contratti vengono utilizzati dagli operatori del settore(per quello agricolo: produttori, grossisti ecc…), i cosiddetti hedgers, per proteggersi dalle fluttuazioni dei prezzi. Ma vengono utilizzati anche dagli speculatori, i quali scommettono su quelle fluttuazioni per garantirsi margini di profitto comprando e vendendo.
Fino alla fine degli anni ‘90 gli investimenti da parte di attori estranei al settore agricolo erano limitati, permettendo una buona convivenza tra hedgers e speculatori. Ma nel 2000 l’introduzione del Commodity Futures Modernisation Act(CFMA) ha liberalizzato il mercato dei futures, consentendo l’ingresso di capitali estranei al settore. Ciò ha permesso nel 2007 lo spostamento di grandi capitali, in fuga a causa della crisi di prodotti finanziari connessa a quella dei mutui sub prime americani, nel mercato dei futures delle commodity, considerati un investimento sicuro. Il capitale investito in futures di prodotti agricoli è aumentato da 5 miliardi di dollari nel 2000, a 175 miliardi nel 2007. Come conseguenza il prezzo dei futures di un prodotto è stato fissato sempre al rialzo rispetto al prezzo nel mercato reale, portando quest’ultimo verso l’alto.
Altri casi di contrapposizioni e correlazioni tra una crisi e un’altra.
Rimanendo sulle cause dell’aumento dei prezzi dei beni alimentari, tra esse vengono fatte ricondurre anche l’aumento di domanda da parte di economie emergenti, come la Cina, e la riduzione delle terre destinate alle coltivazioni alimentari causata dall’incremento delle coltivazioni di derrate per i biocarburanti. Vediamo quindi come ci sia un conflitto tra crisi e, di conseguenza, tra i diversi utilizzi di uno stesso “flex crop”.
Sono diversi gli Stati, tra cui anche gli USA, ma sopratutto africani, dove il dibattito tra produzione destinata all’esportazione e sicurezza alimentare nazionale è ancora in atto. L’utilizzo di terreni per la produzione destinata ai biocarburanti e, soprattutto, ai mangimi animali preclude l’utilizzo di quei terreni per la produzione con fini alimentari per il mercato interno.
La crisi climatica ed energetica: conseguenze ambientali
Ma la contraddizione più problematica è quella della crisi climatica, la quale non può essere separata da quella energetica. Per far fronte ad entrambe, è aumentato l’interesse verso i biocarburanti, non solo da parte dell’Europa, ma anche, e soprattutto, dal nord e sud America(che ne sono i principali produttori). Essi infatti sono un carburante pressoché inesauribile e meno inquinante in termini di CO2. La contraddizione sta proprio nel sistema di produzione necessario per far fronte alla loro maggior domanda: un sistema agricolo industrializzato basato sulla monocoltura. Questo ha enormi costi sociali e, ecco la contraddizione, ambientali.
Il sistema a monocolture ha drasticamente cambiato il Cerrado, savana tra le più ricche in termini di biodiversità al mondo, situato nell’entroterra brasiliano. La loro coltivazione è una delle cause della deforestazione dell’Amazzonia. Basti pensare che in America Latina si trova la cosiddetta Repubblica unita della Soia, che si estende per 46 milioni di ettari, una volta e mezzo l’estensione dell’Italia, che comprende parti del Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay ed est della Bolivia. La deforestazione ha un doppio effetto incidente sul clima: da una parte gli incendi delle foreste, per permettere la coltivazione, sono un grande fattore di emissioni di gas serra, dall’altra la consistente riduzione di aree verdi limita la capacità del pianeta di assorbire il CO2. Inoltre, a causa dello sfruttamento intensivo del terreno attraverso l’utilizzo massiccio di pesticidi, i terreni utilizzati per la coltivazione dei flex crops hanno un ciclo di vita limitato, e non potranno essere riutilizzati successivamente.
Conseguenze socio-economiche
Oltre ai costi ambientali, sono da annotare anche quelli sociali. Il sistema agricolo industriale a monocoltura è fortemente meccanizzato, e richiede una manodopera estremamente ridotta rispetto ad altri sistemi produttivi. In media le fattorie familiari in regioni tropicali generano 35 posti di lavoro per cento ettari di terreno, a fronte di soli 10 posti di lavoro per la stessa quantità di terreno nelle piantagioni a monocoltura di olio di palma e canna da zucchero e solo mezzo posto di lavoro per la produzione di soia(dati di Clements e Fernandez nel loro studio in Brasile) . Di conseguenza questo sistema aumenta l’esodo dei contadini verso le città, contribuendo ad un modello di sviluppo che vedrà le campagne sempre più vuote, e centri urbani sempre più mastodontici.
Inoltre le ridotte opportunità di lavoro ridimensionano notevolmente la diffusa convinzione che uno sviluppo agricolo industrializzato comporti un aumento di benessere per le popolazioni locali, le quali piuttosto sono costrette a cedere il proprio terreno ed abbandonare le campagne.
Indubbiamente ci sono casi di territori che hanno beneficiato della costruzione di infrastrutture e la formazione di nuovi centri abitati là dove prima c’erano solo foreste, come il Mato Grosso, regione brasiliana in cui troviamo il cerrado. Nel Mato Grosso sono presenti paesi e piccole città in cui il tenore di vita è molto al di sopra della media, grazie alla grande ricchezza che il modello dell’agrobusiness ha portato. Ma, come già detto, i terreni utilizzati per le coltivazioni intensive sono destinati a deteriorarsi e, in quel momento, gli investitori e le multinazionali si sposteranno altrove, lasciando terreni incoltivabili a comunità che vedranno quel benessere sfumare.
Come si può notare, i flex crops presentano in sé numerose ambivalenze.
La produzione di una stessa coltura in relazione alle diverse crisi comporta un difficile bilanciamento nella distribuzione dei raccolti tra i diversi settori interessati, oltre al difficile calcolo costi-benefici di ogni singolo settore in risposta alla corrispondente crisi, come abbiamo visto precedentemente, in particolare per la questione ambientale.
La domanda da un milione di euro è se veramente questo sistema di produzione agricola, che vede parti del mondo diventare i grandi orti per altri continenti, sia sostenibile da un punto di vista sociale, economico ed ambientale. Questo quesito si fa sempre più insistente in materia di geopolitica e politica economica. Tale modello produttivo, infatti, presuppone una produzione e una distribuzione che supera i confini nazionali, togliendo parte del controllo del settore agricolo, uno dei più sensibili e, quindi, regolati al mondo, agli stati, assegnandolo a quegli attori che sono gli unici ad avere gli strumenti e le capacità per promuovere tale modello e muoversi e muovere i prodotti da uno stato, o continente, all’altro: le multinazionali.
Il ruolo delle multinazionali
Due terzi del mercato di semi oleosi è dominato da dieci multinazionali, così come il 90% del mercato dei pesticidi, necessario per il mantenimento di un sistema a monocolture. Il ruolo più importante lo hanno i traders, ovvero le aziende impegnate nella vendita e nel trasporto dei prodotti. In questo caso, quattro mega aziende hanno il controllo di quasi il 90% del commercio mondiale di grani e semi oleosi, le quali sono anche i maggiori finanziatori di questi prodotti, secondo quanto rilevato dalla ricerca Oxfam del 2012. Vengono comunemente chiamate ABCD dalle iniziali dei loro nomi: Archer Daniel Midlands, Bunge, Cargill e Louis Dreyfus.
Il sistema agricolo industrializzato globale si inserisce in un periodo di grande liberalizzazione e apertura dei mercati attraverso accordi di libero scambio tra Stati(o entità regionali quando parliamo, per esempio, dell’Unione Europea). Spesso, se non sempre, questi trattati vengono attivamente sostenuti e promossi dalle grandi corporation, le quali hanno gli strumenti(interessi economici enormi) per far sentire la propria voce(un esempio potrebbe essere il ruolo del MEBF nell’accordo Mercosur-UE). È proprio ciò che rende impari il ruolo dei piccoli produttori rispetto agli interessi di queste grandi aziende, nonostante essi rappresentino ancora il 70% della produzione mondiale di cibo. Questi accordi ci mostrano, oltretutto, il ruolo sempre maggiore, se non paritario, delle multinazionali rispetto a quello degli stati nella gestione e organizzazione di un settore, quello agricolo, molto delicato per la sicurezza nazionale.
Questo discorso fa parte di un più ampio problema di gap legislativo nel diritto internazionale per quanto riguarda i diritti e doveri degli investitori privati.
Agli investitori internazionali è riconosciuto il diritto di citare in giudizio uno Stato davanti a una corte internazionale e confrontarsi con esso in modo paritario(unico caso in cui un individuo può confrontarsi con uno stato in una corte internazionale). A tali diritti, però, non corrispondono doveri. Per i doveri, infatti, il diritto internazionale preferisce lasciare la parola ai singoli Stati e alle loro giurisdizioni. Questo porta ad un meccanismo subdolo. È difficile che lo stato di provenienza di una multinazionale prenda una posizione contraria ad essa, dato che spesso tali compagnie portano milioni di tasse allo stato, oltre che, in determinati stati, finanziamenti diretti ai partiti. Così come è difficile per lo Stato, in cui la multinazionale esercita, far valere il proprio diritto, a causa del timore di perdere, spesso, migliaia di posti di lavoro.
Non solo, quindi, le compagnie multinazionali sono le sole che hanno i mezzi per imporsi in questo sistema di produzione, ma sono anche rafforzate da un contesto di diritto internazionale favorevole.
Così nel 2009 il Messico ha dovuto pagare 71 milioni di dollari alla già citata Cargill, per aver introdotto una tassa di importazione sullo sciroppo di fruttosio, legato all’obesità, perché contravveniva alle regole dell’accordo di libero scambio del Nord America(NAFTA).
Conclusione
Un sistema agricolo mondiale basato sui flex crops presenta delle opportunità così come delle criticità. Se da una parte viene utilizzato per aumentare la produzione di materie prime alimentari per sostenere una popolazione in continua crescita e permette di fornire energia meno inquinante, dall’altra parte pone seri dubbi sulla sua sostenibilità in termini sociali e ambientali. Inoltre, il settore agricolo continua ad essere di vitale importanza per la sicurezza di ogni stato. Ciononostante, alla sempre maggior globalizzazione del settore, non è stata accompagnata un’altrettanta radicale internazionalizzazione della sua gestione. In particolare, una maggior regolamentazione del sistema finanziario e un’implementazione dei doveri degli investitori privati sono necessarie per, quantomeno, delimitare e governare il passaggio di competenze e controllo del settore agricolo dagli Stati alle multinazionali.