L’8 marzo, come ogni anno dal 1909, si celebra nel mondo la Giornata Internazionale dei diritti della donna.
Le radici di questa commemorazione affondano nella storia degli Stati Uniti, quando per volontà del partito socialista americano si volle istituire il Women’s Day.
In seguito acquisì un valore aggiunto nel 1917 quando, proprio in quella data, le donne di San Pietroburgo iniziarono a manifestare per chiedere la fine della Prima Guerra Mondiale e, quindi, il ritorno dei loro mariti in patria. Questa fu una delle micce che diede vita alla Rivoluzione Russa e alla tempestiva caduta dello zar.
Dunque negli anni questa celebrazione divenne il segno distintivo delle conquiste e delle lotte di donne, promotrici di grandi cambiamenti.
Si pensi, ad esempio, all’italiana Anna Maria Mozzoni, ispiratrice della legge per la tutela del lavoro femminile e dei fanciulli e del diritto di voto alla donna.
Oggigiorno, tuttavia, non si può dire che questa giornata mantenga intatto il valore che gli hanno attribuito queste grandi donne.
In Italia siamo abituati a sentir parlare di “Festa della donna” con tutto ciò che ne consegue: regali, attenzioni particolari, auguri donati.
Per la strade vengono organizzati eventi e flash mob per sensibilizzare al tema della disparità di genere; tutti i personaggi di tendenza dedicano qualche minuto per fare gli auguri alle proprie fan; alla televisione non si parla d’altro; il web è invaso di immagini che lasciano trapelare una speranza per il futuro, un messaggio di forza…
Tutto molto bello, se non fosse che ci stiamo dimenticando dell’altra faccia della medaglia: domani questo alone di ipocrisia svanirà nel nulla.
In questo modo abbiamo finito anche per sminuire il “Women’s Day”, commercializzandolo fra promozioni e omaggi di ogni genere, rendendolo più ridicolo che mai, come se le donne in quel giorno potessero sentirsi invincibili; per poi sprofondare il giorno dopo nelle solite disparità.
Il loro momento momento di gloria prima del prossimo “contentino”.
La finzione dietro l’angolo:
Magari bastasse un rametto di mimosa, preso dal primo fioraio sotto tiro, e una scatola di cioccolatini per dimenticarci dello schiaffo della sera prima.
Magari bastasse un “giorno libero” dalla routine per essere donne (prima che mamme e mogli) e per dimenticarci che ogni giorno siamo costrette a mettere da parte i nostri sogni lavorativi per dedicarci alla famiglia.
Un giorno non basta perché le cose appaiano finalmente così come dovrebbero essere.
Non ci si può accontentare di un giorno di festa, quando ogni 15 minuti una donna è vittima di violenza nel mondo. Non ci può accontentare quando, solo in Italia, le donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza nel 2017 sono state 43.467 (rapporto dell’Istat).
Qui sono i numeri a parlare. Non c’è bisogno di inventarsi nulla, ma solo di restare in silenzio a riflettere con l’amaro in bocca.
Ammettere che la situazione sia drammatica e non debba essere in alcun modo accettata potrebbe sicuramente rappresentare un primo passo verso il miglioramento di questa situazione; ma non è certamente l’unico da fare.
Fra le vittorie sulla strada della parità di genere possiamo citare la recente legge “Codice Rosso”, approvata dal ministro della difesa Alfonso Buonafede, che istituisce due nuovi reati, il reveng porn e lo sfregio del volto; e inasprisce le pene verso questi due crimini.
Per quanto riguarda, invece, la parità di genere sul piano economico, l’ONU si è posto l’obiettivo (obiettivo numero 5 dell’agenda ONU 2030) di raggiungerla entro la fine del 2030. Obiettivo assai nobile, ma probabilmente poco verosimile.
A spiegarlo è Sabrina Scampini nel suo libro “Perché le donne valgono, anche se guadagnano meno degli uomini”, secondo cui ci vorranno ancora minimo 114 anni per arrivare a questa effettiva parità.
A confermare la sua tesi è il fatto che l’Italia sia, secondo il Gender Gap Report del 2020, uno dei Paesi europei peggiori per quanto riguarda la disparità salariale e la partecipazione delle donne alla vita economica.
In Italia, infatti, meno di una donna su due lavora.
Grazie a questa cattiva fama, il nostro Paese si guadagna il 76esimo posto su 153 Paesi (nel mondo!), seguito da Suriname, Repubblica Ceca, Mongolia.
Non è l’ora dei festeggiamenti:
Nonostante le donne negli anni abbiano ottenuto diritti non indifferenti, ci sono problemi ben radicati nella nostra società, che spesso appaiono invisibili agli occhi; ma distruttivi negli effetti.
Basti pensare al linguaggio che quotidianamente utilizziamo per conversare, ossia un linguaggio sessista e ricco di pregiudizi. In primis basti pensare all’utilizzo del dispregiativo “femminuccia” come insulto.
Un secondo esempio può essere la frase trita e ritrita secondo cui “gli uomini sono meno portati per occuparsi delle faccende domestiche” e “più portati per le attività fisiche” rispetto alle donne.
E come dimenticarsi del “le donne non sanno guidare”, “donna al volante, pericolo costante”, “se guida così male, sarà sicuramente una donna”.
Questi e tanti altri stereotipi di questo tipo rappresentano una minaccia e dei limiti impercettibili che vengono posti. In questo modo è facile che vengano condizionati sia i bambini che li sentono per la prima volta; sia gli adulti che ormai ci convivono da sempre.
Secondo i dati Istat 2018, il 58,8% della popolazione (di 18-74 anni) si ritrova in questi stereotipi, più diffusi tra i meno istruiti e nel Mezzogiorno.
Inoltre è particolarmente curioso come alcuni termini al maschile abbiano un significato, mentre al femminile tendano sempre a rimandare all’ambito sessuale (gatto morto/gatta morta, zoccolo/zoccola).
A tal proposito ha fatto il giro del mondo il monologo, interpretato da Paola Cortellesi, durante i David di Donatello 2018, in cui viene messa in luce questa contraddizione con un pizzico di ironia.
Anche le donne devono assumersi le proprie responsabilità:
Tuttavia non sono solo gli uomini a utilizzare questo tipo di linguaggio, ma spesso e volentieri sono proprio le donne che continuano a protrarre modelli di comportamento (o di linguaggio) errati, senza darci il giusto peso.
Siamo nemiche di noi stesse quando pensiamo che l’uomo debba per forza pagare la cena al primo incontro o farsi avanti per primo, “perché è sempre stato così”.
Siamo nemiche di noi stesse anche quando accettiamo una battuta sessuale, che ci infastidisce, per paura di “sembrare noiose”; o quando pensiamo di comportarci “come gli uomini” per dimostrare il nostro valore.
E infine, siamo nemiche di noi stesse quando non denunciamo un abuso perché crediamo di essere noi ad aver sbagliato, di essere il problema.
Una festa dedicata al più debole non tende a rimarcare le differenze, accentuandole?
La differenza uomo-donna dovrebbe sparire per lasciare spazio all’elogio dell’essere umano in sé e per sé.
Solo diminuendo questo gap che si è creato, potremo cogliere il valore intrinseco dell’individuo che abbiamo davanti, a prescindere dal suo sesso. Prima di essere uomo o donna, infatti, siamo esseri umani.
A tal proposito la sensibilizzazione deve avvenire fin dalla prima infanzia da parte di genitori e insegnanti.
Un metodo educativo può essere quello di far presente al bambino che non esistono giocattoli da femmina o da maschio.
Tutti questi, infatti, sono standard culturali che condizionano la formazione del carattere dell’infante in modo irreparabile, secondo convenzioni sociali che non hanno motivo di esistere.
Conclusione:
Il raggiungimento della parità genere, a mio avviso, avverrà quando non sarà più considerata una “Lotta” tra uomini e donne, tra chi è più furbo o più intelligente; ma una necessità per sentirci ancora più vicini senza alcuna invidia.
Solo un progetto condiviso porterà, infatti, all’adozione di nuove consuetudini da protrarre nel tempo.
L’aiuto maschile è essenziale per il raggiungimento della parità di genere e non deve essere considerata una minaccia; ma al contrario un valore aggiunto.
Per questo motivo è necessario fare attenzione alle piccole ingiustizie a cui assistiamo ogni giorno.
In caso contrario finiremo per minimizzare il problema o (peggio) abituarci ad esso, rimanendo in una situazione di stallo perenne, in cui le donne non sono in grado di emergere come vorrebbero, schiave di un sistema maschilista, che le zittisce quando pronunciano una parola di troppo e non le accetta se diverse dagli standard di bellezza vigenti; per poi risputarle fuori amareggiate e poco soddisfatte di loro stesse e della propria vita.
Sara Albertini