Nella Repubblica di El Salvador non accenna a placarsi la politica di zero tolleranza del controverso presidente Nayib Bukele contro i gruppi criminali, le pandillas.
Si tratta di una guerra alla criminalità senza precedenti, che ha portato la popolazione carceraria a raggiungere i 100.000 individui. Questo equivale a circa il 2% degli abitanti del paese, la proporzione più alta al mondo. Il 2022 si è chiuso con un tasso di 7 omicidi ogni 100.000 abitanti, il più basso in una regione estremamente violenta come il Centroamerica. Il risultato dell’operazione “Piano di Controllo Territoriale” è stato diffuso con orgoglio dal governo. Esso ha promosso l’idea di un vero e proprio “miracolo salvadoregno”, un modello vincente contro il crimine organizzato, che tuttavia nasconde vari punti d’ombra.
Le trattative tra il governo di El Salvador e le pandillas
Le prime fasi del Piano hanno portato il numero di omicidi da 52 ogni 100.000 abitanti nel 2018, il valore più alto al mondo, a 17.6 nel 2021. Tuttavia, questo andamento virtuoso ha subito una battuta d’arresto nel marzo 2022. Nel giro di soli due giorni il numero di morti per mano delle Maras salvadoregne ha raggiunto un totale di 76 persone assassinate.
All’origine dell’improvvisa ripresa delle violenze vi sarebbe la rottura di un patto tra il governo di Bukele e le gang. Inizialmente, il presidente salvadoregno aveva scelto la strada delle trattative segrete con i capi dei maggiori gruppi criminali del paese, ossia la Mara Salvatrucha e le fazioni del Barrio 18. Il patto tra lo Stato e le pandillas per azzerare il numero di omicidi è venuto alla luce solo al momento del suo fallimento. Non solo, è stata resa pubblica anche l’esistenza di favori elettorali per il partito di Bukele, a cambio di migliori condizioni per i pandilleros incarcerati.
Il pugno di ferro del Governo
Con l’inaspettata esplosione nel numero di omicidi, il Governo ha dichiarato guerra aperta ai criminali, azione che ha portato alla situazione attuale. Le immagini dei detenuti hanno fatto il giro del mondo, diffuse dallo stesso governo salvadoregno a celebrazione del suo trionfo contro la criminalità. Essi corrono seminudi, scortati dalle guardie carcerarie, oppure vengono fatti sedere formando un ammasso inumano di corpi tatuati e teste rasate.
A febbraio, il Governo ha aperto una mega-prigione nel segno di questa immensa operazione, il CECOT, Centro di Confinamento del Terrorismo. Qui sono stati trasferiti duemila pandilleros e secondo il Governo la struttura sarebbe progettata per ospitarne fino a 40.000. Ciò equivarrebbe ad appena 0,6 metri quadrati per ogni detenuto, rendendo il CECOT una struttura penitenziaria tra le più inospitali al mondo.
Le derive autoritarie in El Salvador nel segno della lotta alle pandillas
La reazione massiccia dello Stato salvadoregno alla violenza ha sollevato molte critiche da parte degli attivisti dei diritti umani. Nei fatti, l’operazione rischia di far piombare il paese nell’incertezza del diritto, in quanto il regime d’eccezione imposto da Bukele ha dato il via libera alle detenzioni arbitrarie da parte delle forze dell’ordine. Molti individui sospettati di appartenere alle gang vengono incarcerati senza un processo. Inoltre, i dati sugli omicidi pubblicati dagli organi istituzionali hanno smesso di includere il numero di morti tra i pandilleros, alterando così le statistiche e la percezione della sicurezza.
Bukele non è nuovo a esternazioni preoccupanti e derive autoritarie. Personaggio eccentrico, il presidente salvadoregno aveva già fatto parlare molto di sé per le sue scelte di politica monetaria – su tutte, l’adozione del bitcoin come valuta al fianco del dollaro statunitense – ma soprattutto per la sua poca considerazione per la democrazia. A febbraio 2020, per ordine del presidente, i soldati hanno assediato il parlamento salvadoregno per intimidire i deputati e forzare l’approvazione dei finanziamenti per le operazioni contro le gang. Le numerose critiche mosse dall’opposizione non hanno fatto che incontrare l’ironia di Bukele, che sul suo profilo Twitter si definisce “dittatore più figo del mondo”.
Un dilemma tutto latino-americano: quanto è sacrificabile lo stato di diritto?
In occasione dell’assalto al parlamento, Bukele aveva invocato l’insurrezione popolare trovando l’approvazione di molti salvadoregni. In un paese dove le pandillas hanno tormentato la popolazione civile per anni compiendo estorsioni, rapine, omicidi e stupri, la popolarità delle misure prese dal governo di El Salvador è enorme. Infatti, circa l’80% dei cittadini giudica positivamente l’operato di Bukele come unica via d’uscita dall’inferno delle gang criminali.
Dunque, ad oggi, a El Salvador le voci critiche e i discorsi sul rispetto dei diritti umani e sui valori democratici sono estremamente impopolari. Tipicamente viste come un’intollerabile intromissione nei propri affari interni da parte di osservatori internazionali e potenze straniere, le opinioni pubbliche scambiano le preoccupazioni per l’involuzione dello stato di diritto per “buonismo”, in questo momento intollerabile, se non per favoreggiamento alle gang. Molti salvadoregni percepiscono queste prese di posizione come espressione dell’ipocrisia di organismi internazionali come la Commissione Interamericana dei Diritti Umani e di ONG come Human Rights Watch, i quali hanno condannato i metodi violenti e la sospensione dei diritti fondamentali.
Ma il “metodo Bukele” funziona e le opinioni pubbliche dei paesi circostanti se ne sono rese conto, anch’essi alle prese con annosi problemi di criminalità e violenza. Tuttavia, quando le soluzioni drastiche aggirano il funzionamento corretto di una democrazia, esse aprono la porta a insidie che la storia latino-americana conosce fin troppo bene. È una tentazione che in America Latina non smette di riaffiorare, quella per cui in molti si ritrovano a dire che tutto sommato, per risolvere i problemi del paese si deve ricorrere al pugno di ferro, se non direttamente al ritorno dei militari al potere.