venerdì, 20 Dicembre 2024

Da una donna, per una donna

Perché si scrive per le donne e per il mondo intero? La rubrica umanistica poteva scegliere qualsiasi giorno, eppure l’8 marzo insiste particolarmente con prosa, cinema e musica per raccontare tra verità e finzione la voce assunta dalla donna nelle varie forme. Perché? Nella memoria collettiva sono rimaste tracce indelebili che tutt’ora stanno proseguendo e noi, ricordandole anche tramite i mezzi della letteratura, possiamo darne continuità e osservarle dai loro infiniti e insaziabili punti di vista, per ricordarci che sono molto più reali di quanto ci raccontiamo.

#prosa

Mrs Dalloway c’est moi

Nel 1925 Virginia Woolf conquistò le scene del panorama letterario inglese con la pubblicazione di Mrs Dalloway

Il romanzo racconta delle vicende di Clarissa Dalloway nell’arco della  giornata del 13 giugno 1923 a Londra. Tutto appare normale; la signora esce a comprare dei fiori per una festa che organizzerà la sera e intanto vaga per le strade della capitale.

Cosa ci sarà di strano? L’opera è ritenuto un classico per il modo in cui Virginia Woolf la racconta. Noi seguiamo i personaggi, soprattutto Clarissa, attraverso i loro pensieri. Non ci interessano i particolari, quanto il metodo introspettivo che la scrittrice adopera per tutto il romanzo.

Clarissa Dalloway è un personaggio controverso. All’inizio ci viene riportata la classica donna borghese, con un marito prestigioso e ricco, una splendida figlia, una casa di cui occuparsi, ma proseguendo la Signora acquista sfumature, colore; è l’unica macchia di colore in un mondo in  bianco e nero. In particolare, l’empatia che prova con il veterano Septimus Warren Smith, affetto da disturbi dissociativi in seguito ai suoi trascorsi in guerra. La donna lo comprende, come se fosse un tutt’uno con l’uomo, anche se i due nel corso del romanzo si incrociano di sfuggita e nulla di più.

Il titolo è ovviamente un calco dalla celebre frase di Gustave Flaubert: “Madame Bovary c’est moi” e si può paragonare a Virginia Woolf con Mrs Dalloway. Dentro il personaggio c’è l’autrice, ci sono le sue riflessioni sulla morte, la solitudine, la vacuità della vita e tutta la complessità della scrittrice. Clarissa è decostruita, frammentata, sola in un mondo pieno di prosaicità. 

Si può affermare senza dubbio che è l’opera della perdita. La scrittrice illustra la vacuità degli affetti e del desiderio passionale; quanto convenga continuare a vivere sperando in un riscatto. Per ultimo si ragiona costantemente sullo scorrere inesorabile del tempo, di una giovinezza passata e sull’impossibilità di poter tornare indietro. Non a caso le ore, nel romanzo, vengono sempre scandite dal rintocco del Big Ben; come a ricordarci quanto il presente sia effimero.

Bene, facesse pure – l’unica consolazione della  vecchiaia, pensò Peter Walsh, uscendo da Regent’s Park, col cappello in mano, era proprio questa: le passioni restano forti come sempre, ma almeno si guadagna – alla fine! – quella capacità che dà all’esistenza il suo gusto supremo – la capacità di tenere l’esperienza nelle proprie mani, e di volgerla, con una lenta rotazione, verso la luce.

Il romanzo sarà il biglietto da visita della Woolf, e con esso si presenterà al grande panorama letterario europeo e sarà elevata ad autrice dalla fama mondiale imperitura.

Nikita Nanni

L’enigma estetico delle variabili reali nel romanzo Una donna

Descrivere, leggere o porre un’analisi critica al romanzo Una donna di Sibilla Aleramo è possibile, ma richiede un patto narrativo, a-narrativo e una terza variabile incognita (data dal reale).

Chiariamo: il primo patto suggerisce di individuare nella storia tracce del bildungsroman e di cogliere le incredibili stille pungenti di emancipazionismo, umanitarismo e socialismo; il secondo patto chiede di accettare che il documento umano sulla donna non si sappia né dove inizia né dove finisce, che l’ipotetico autobiografismo unisce verità, finzione, opera d’arte e che i quaderni di vita reale sono diventati taccuini di produzione di una prosa straordinaria.

A completamento di queste due asserzioni si incastra una componente fondamentale che rende il libro, esattamente, il romanzo totale: la verità della sua finzione. L’autrice pone un enigma estetico che intreccia il racconto immaginato e la sua storia personalissima e lascia al lettore la decisione sul finale di questo incantesimo: il romanzo ci coinvolge nella verosimiglianza della sua narrazione e ci abbandona per terra a raccogliere i cocci, o meglio i residui, della sua attualità.

Per ordine: Sibilla Aleramo è lo pseudonimo di Rina Faccio (o meglio, Marta Felicina Faccio 1876-1960), scrittrice autodidatta, collaboratrice di Vita Moderna e La Vita Internazionale, circondata dall’eco dei primi dibattiti emancipazionisti del vento femminista anglosassone. Rina dirà che Una donna è assolutamente un classico, mettendo da parte Il quaderno delle lacrime e riconoscendo la vera e necessaria forma che stava assumendo il suo romanzo: “Io ho davanti a me il futuro, anche se voi non lo credete”.

“Eppure lei è il fiore di Torino 900-10. Mi commuove come un ricordo. C’è in lei Thovez, Cena, Gozzano, Amalia, Gobetti. C’è Nietzsche, Ibsen, il poema lirico.” (dirà Pavese su Sibilla Aleramo)

“Per la prima volta sentivo intera la mia indipendenza morale”: la storia doveva essere un’opera d’arte o un’estetica descrizione di ciò che stava tragicamente e realmente accadendo? Il conflitto è irrisolvibile. Infatti: dunque, appartengo a un uomo? Si aggiunge questa frase dopo una delle prime scene di violenza sessuale descritte con gli occhi di una donna. Sibilla dividerà se stessa dal corpo, entrando in uno stato di coscienza del sé libero dallo stato materiale, per poi riprenderlo dopo aver guardato tutto il dolore, desiderato la morte ed essere fuggita dalla sua città diventata un Ade.

Una donna, è il romanzo totale: il discorso su l’aperto flusso di coscienza di Lei, l’uccisione metaforica del modello maschile di Lui, l’affermazione del sè di Loro (Sibilla e il personaggio): narrano la tragica fuga dal suo io passato per realizzare veramente ciò, che nel romanzo, doveva essere solamente un’altra vita immaginaria.

Francesca Vannini

#cinema

L’alba del colore guarirà gli infermi

Che me ne faccio di voi, piedi, se ho le ali per volare

scriveva Frida Kahlo nell’ultima pagina del suo diario.

L’abbiamo conosciuta e riconosciuta in tutte le sue sfumature, in un overdose di immagini, gadget, aforismi. Guardare attraverso la sua lente è senz’altro diventata un’impresa per molti, ma trascendere l’oggettività dei suoi colori e contemplare oltre la mera superficialità è una dipendenza per pochi.

Entrare dentro i dipinti della donna surrealista – come l’aveva etichettata Andrè Breton – equivale al fondersi perdutamente con l’animo di un’ombra tormentata, che ha rimodellato le sue schegge e ricostruito la via della salvezza. Frida Kahlo ha sagomato il suo universo dentro un ritratto e ha disegnato la genesi e il tramonto della sua interiorità con toni malinconici e drasticamente realistici.


La vita come un dipinto è ciò che irrompe sullo schermo grazie alla trasposizione di Julie Taymor del 2002. Frida è un quadro che si crea e si frantuma in un grande mosaico; la donna, interpretata da Salma Hayek, colora ogni instante della sua esistenza, sospesa tra arte, amore e politica. Lo spettatore è così catapultato nelle strutture della sua originalità artistica e negli anni della passione.

Eros e Thanatos viaggiano fianco a fianco intorno a lei, toccandola e sfiorandola nei suoi continui contrasti emotivi: dalla sua totale perdizione e dipendenza per Diego Rivera (Alfred Molina) ai dolori struggenti della malattia. La pellicola, nel suo perpetuo mutarsi in altro, ricostruisce con grande maestria l’orizzonte della lotta forsennata contro la morte. La Frida di Taymor non distoglie mai lo sguardo verso il futuro; non naufraga nella distesa di sangue in cui è condannata, ma rinasce con forza dalle continue mancanze e violenze.

Una donna che ha saputo lottare contro il bianco e nero. Una donna che è lei stessa la fonte e la sorgente del suo colore.

Asia Vitullo

#musica

La violenza in musica

Mary – Gemelli Diversi

Una canzone che a tutti è capitato di ascoltare. Con un ritmo inconfondibile, che risalta ogni parola del testo. La protagonista si sente sola e prova un’angoscia profonda. Non si capacita di come il padre, che dovrebbe tutelarla e difenderla in ogni situazione, sia invece il suo principale oppressore.

Ma non solo: se nella prima parte della canzone, troviamo una giovane Mary in fuga dal dolore col coraggio di voltare pagina nonostante tutte le difficoltà, alla fine vi è una donna totalmente cambiata. Niente più dolore, solo amore. Con una stazione come sfondo, quasi ad indicare il cambiamento e la transitorietà delle cose.

Janie’s got a gun – Aerosmith

Inizia tutto da un articolo pubblicato su Newsweek riguardo alle vittime da arma da fuoco. Steven Tyler lo legge e ne nasce una riflessione che porta alla nostra Janie’s Got a Gun

Janie altro non è che una ragazza che si vendica delle violenze sessuali subite dal padre. In tema con il testo, il video segue la storia della ragazza: contiene riferimenti espliciti all’incesto ed alla pedofilia. All’inizio, viene mostrato il padre che esce dalla camera della figlia, per poi far vedere lei stessa piena di tagli in corpo mentre piange e si contorce nel suo letto. Un video raccapricciante, che addirittura MTV aveva rifiutato di mandare in onda.

Una curiosità su questo brano: alcuni versi della canzone sono stati cambiati nella versione radiofonica. Ad esempio l’originale “He raped a little bitty baby” è stato sostituito con “He jacked a little bitty baby” su richiesta della casa discografica.

Frozen – Within Temptation

Il brano, come comprovato dal videoclip, ruota attorno alla violenza domestica. In particolare, è la lettera di una madre alla sua bambina, scritta dalla prigione. Ella infatti è detenuta per aver ucciso il marito violento, colui che aveva abusato della loro bambina.

Anche in questo caso, il video riporta scene macabre, come la bambina che, dopo gli abusi, mutila la sua bambola di porcellana, buttandola a terra.

Piccola curiosità: i proventi ricavati dalle vendite dell’album contenente il bareno, sono stati donati all’associazione olandese Child Helpline International.

Alice Mauri

Le nostre autrici hanno interrogato l’arte e attraverso di essa hanno evidenziato la donna, le sue movenze, le sue rappresentazioni, la sua volontà di emergere. Il miracolo è che non rimangono soltanto delle voci, ma delle descrizioni estetiche di un processo che finalmente ha preso forma e continua ad affermarsi questi giorni, che leggiamo le prose proposte poc’anzi ma le ricerchiamo insistentemente anche nella realtà. Che sia uno sguardo oltre al libro, sulla donna quale persona, senza mai più chiedersi perché è necessario.
La potenza della voce femminile e il suo peso in società: i due volti che vi vogliamo mostrare oggi.

Sistema Critico
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