Secondo un’indagine del 2018 il 54% degli italiani intervistati ritiene di essere in credito con il proprio paese, ovvero di aver dato più di quanto abbia ricevuto in cambio. Il sempre maggiore consenso riscosso negli ultimi decenni dalle forze populiste, basti pensare a Lega ed M5S, sembra confermare i dati: gli italiani coltivano un sentimento di rancore e frustrazione nei confronti della classe politica, che ha preso l’impegno di garantire loro il massimo e la felicità per poi fallire miseramente nell’intento. Ma da dove deriva questa promessa e perché l’establishment ha preso impegni impossibili da mantenere? La crisi del politico ha origine non solo nelle contingenze storiche del tardo 900 ma anche e soprattutto nelle contraddizioni strutturali intrinseche alla stessa democrazia
La democrazia di Tocqueville
Secondo Tocqueville, sociologo vissuto nella prima metà dell’800, la democrazia promette a chiunque la abiti pieno controllo sulla propria esistenza ma questa promessa nella sua forma assoluta non potrà essere mantenuta, infatti affinchè gli individui gestiscano la propria esistenza è necessario che la comunità alla quale appartengono governi la propria. Perché ciò accada i singoli devono cedere parte della propria autonomia: il perfetto cittadino democratico è colui che rinuncia ad approfittare fino in fondo della promessa di autodeterminazione assoluta in nome di principi etico-religiosi o utilitaristico-razionali. Detto più semplicemente, la democrazia incentiva gli esseri umani ad essere qualsiasi cosa desiderino ma al contempo funziona unicamente se questi desiderano entro certi limiti.
Il secondo dopoguerra
All’indomani della Seconda guerra mondiale la democrazia liberale torna ad essere il regime politico dominante per mancanza di meglio, visto che le alternative sono state sconfitte (nazionalismo) o risultano meno desiderabili (comunismo). La promessa di autodeterminazione viene fatta valere in forma limitata, con la riconferma delle vecchie gerarchie politiche e l’introduzione di più istanze di mediazione possibili tra elettore e luoghi della decisione. Gli anni 50/60 rappresentano l’età d’oro del partito, che da un lato si fa garante della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e dall’altro li subordina al rispetto di valori e norme. I cittadini accettano questi limiti perché mossi da un profondo desiderio di normalità a seguito del conflitto. Vogliono mantenere il livello di vita soddisfacente e il benessere economico portati dall’avvento della democrazia e il modello sovietico non sembra un’alternativa di civiltà migliore. Tuttavia che cosa succede quando questi limiti e congiunture storiche vengono meno?
Il ’68 e la decomposizione della politica
I moti del ‘68 segnano la fine della parentesi postbellica, esplodono le tensioni consustanziali alla democrazia e viene rilanciato il progetto di emancipazione individuale svincolato dalle limitazioni del dopoguerra. Diventa adulta la generazione dei baby boomers, che non ha avuto esperienza diretta delle durezze della guerra ed è convinta che stabilità e benessere siano la normalità in Occidente. Di conseguenza le radici utilitaristiche alle quali si era ancorata la democrazia non possono più tenere. La classe politica, convinta di trovarsi di fronte ad un’ondata inarrestabile, cede alle richieste dei governati ampliando gli spazi di libertà individuale, rinunciando al suo tradizionale ruolo di guida ed inserendosi in un circolo vizioso per cui all’avanzare dei processi di emancipazione deperiscono le condizioni stesse del fare politica.
Le riforme degli anni 70
Negli anni 70 la classe dirigente vede ampliarsi il proprio campo d’azione ma deve fare i conti con cittadini sempre più indisposti ad accettare obblighi e divieti che limitino le loro libertà. Vengono rafforzati gli istituti di democrazia diretta (referendum) ed ampliati i diritti individuali con interventi legislativi che hanno per oggetto temi rimasti ai margini della sfera pubblica (divorzio 1970, aborto 1978). Inoltre gli organismi elettivi cedono potere ad istituzioni tecnocratiche e giudiziarie, dotandosi di strutture amministrative sempre più autonome. Anche il processo di integrazione europea viene utilizzato per assecondare e allo stesso tempo contenere le richieste dei cittadini, un esempio è l’adesione dell’Italia al Sistema monetario europeo nel 1979. Il paese ha bisogno di una politica di rigore economico che i partiti non hanno la forza di imporre ad un’opinione pubblica riluttante, per questo le scelte di austerità verranno giustificate come sacrificio necessario per l’adesione allo SME.
Dinnanzi all’attacco alla democrazia rappresentativa la politica adotta gli stessi strumenti utilizzati da altri ordinamenti, il problema è che questi, gestiti da un sistema debole come quello italiano, contribuiscono ad accrescere le difficoltà piuttosto che diminuirle. Rispetto al resto d’Europa nel paese c’è un abisso tra Costituzione scritta e quella di fatto, che impedisce alla Repubblica di costruirsi una legittimità sulla base di valori liberaldemocratici. Con il delinearsi delle sfere d’influenza gli elettori non hanno una reale possibilità di scelta vista l’esclusione del Pci dal potere. Inoltre i partiti occupano in maniera sempre più pervasiva le istituzioni, subordinandole alle proprie regole ed interessi (Partitocrazia).
La Sindrome di Erisittone
Alla fine degli anni 70 gli attori politici capiscono che la denuncia all’inadeguatezza del sistema politico è un potente strumento di mobilitazione del consenso popolare. La Repubblica dei partiti cade così vittima della Sindrome di Erisittone, re della mitologia greca che, condannato da Demetra ad una fame inesauribile, finisce per divorare se stesso. Il ceto politico, alla ricerca di consenso, indebolisce la sua già fragile legittimità.
Tangentopoli
La crisi italiana scaturisce da un sistema politico a fine corsa e le sfide storiche che si trova ad affrontare. Nei primi anni 90 la fedeltà ai partiti è in ritirata mentre la situazione della finanza pubblica si aggrava con la crisi valutaria del 1992 e la massa crescente del debito pubblico. La fine della Guerra fredda crea un senso di disorientamento e il progredire del processo di integrazione europea fa credere a molti che ormai la politica nazionale sia superflua e che il vero centro decisionale sia Bruxelles. Tangentopoli segna il collasso della politica novecentesca italiana e l’esplosione di emozioni antipolitiche violente nei confronti di un ceto di governo che diventa il capro espiatorio. Gli italiani attribuiscono alla politica la responsabilità di problemi che non è più in grado di risolvere.
Le inchieste sono presentate dai media non tanto come eventi giudiziari ma come la dimostrazione dell’efferato marciume del sistema politico italiano. Qualunque argomento gli inquisiti utilizzino diventa irrilevante dinnanzi all’obiettivo dell’espulsione definitiva del ceto di governo. Ma come poteva l’Italia sperare di costruire un sistema politico normale nel momento in cui reinseriva la morte civile nel conflitto parlamentare? Il risultato è che ancora oggi permane un profondo senso d’insoddisfazione. Gli elettori da un lato pretendono che la politica risolva problemi al di là della sua portata e dall’altro sono impazienti di fronte alla lentezza del sistema. Quindi quale futuro? Il sentimento antipolitico crescerà in maniera esponenziale o la classe politica sarà in grado di ricostruire la fiducia dei cittadini?
Da G. Orsina “La democrazia del narcisismo: Breve storia dell’antipolitica”, Marsilio editori, 2018