Le radici della cultura dello stupro sono antichissime, con essa si allude all’insieme di diverse forme di violenza con le quali il sesso femminile viene denigrato. Si può trattare di violenza fisica e abusi fino ad arrivare alle più semplici ma non innocue battute sessiste, colpevolizzazione della vittima, retorica del “se l’è cercata, doveva stare più attenta”, slut-shaming e via dicendo.
Le origini dello stupro di guerra
Questo articolo si concentrerà in particolare sull’antico paragone tra donna sottomessa e città conquistata. Infatti, lo stupro viene tuttora considerato il metodo punitivo ma anche educativo, per eccellenza, nei confronti di una donna. Tutto ciò è retaggio di un datatissimo modus operandi che vedeva gli antenati occupare un luogo, dopo la sua conquista, e stuprare tutte le donne della popolazione sconfitta per rimarcare il loro ormai vinto potere; usanza che è ancora in vigore in territori di guerra. Come quelle che potevano essere le sue ricchezze o i suoi possedimenti, la donna era quindi considerata alla stregua di una proprietà qualsiasi degli uomini, e per rimarcare la propria vittoria con i “perdenti” era necessario assoggettare in primis l’oggetto principale: mogli, figlie e madri.
Lo stupro di guerra avviene dunque per molteplici ragioni e malsani incentivi: la donna è un bottino di guerra come gli altri beni materiali, abusi e aggressioni sono incentivi per i combattenti, violentare le donne sconfitte fa parte del rituale dei festeggiamenti della conquista e, infine, mettendo incinta la donna si distrugge l’identità della comunità nemica.
Il concetto di “turbatio sanguinis”, chiamato così dai giuristi, nell’antichità era la contaminazione del sangue della donna in seguito allo stupro e quindi dell’embrione che nasceva dall’unione del sangue femminile e del seme maschile (conoscenza pseudoscientifica che veniva ricavata dalla cessazione delle mestruazioni nella donna durante la gravidanza).
Raffigurazioni di donne assoggettate
Un chiaro esempio di quanto detto fino ad ora e legato alla storia romana è dato dalla Colonna Aureliana, eretta tra il 176 e il 192 d.C. per celebrare le vittorie dell’imperatore Marco Aurelio ottenute su alcune popolazioni germaniche. Sul monumento sono raffigurate scene di violenza nei confronti delle donne sottomesse. Negli episodi raffiguranti la conquista di una località, le donne sono trascinate per i capelli e sono vittime di violenza mentre implorano pietà. In queste immagini è messa in evidenza la crudeltà delle azioni che doveva subire il sesso femminile. Ci sono anche episodi in cui la donna subisce uno stupro vero e proprio, è infatti rappresentata col seno scoperto o con cenni di nudità.
Lo stupro di Lucrezia narrato da Tito Livio
L’episodio più famoso legato ad uno stupro nell’antica Roma viene sicuramente narrato da Tito Livio nel Libro I dell’ “Ab Urbe Condita”. Lucrezia, figlia di Spurio Lucrezio Tricipitino, membro del Senato, e moglie di Collatino, venne violentata da Sesto Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo (settimo e ultimo re di Roma); questo avvenimento portò irrimediabilmente alla cacciata dei Tarquini.
In questo libro acquista particolare risalto la figura di Lucrezia, vittima di violenza carnale che decide di togliersi la vita come gesto estremo di ribellione e di rispetto per la sua pudicizia.
Il racconto comincia narrando una sfida tra amici. Lucio Tarquino Collatino, giovane marito di Lucrezia, stava bevendo con i suoi compagni negli accampamenti militari, quando il discorso, nell’euforia del vino, prese poi una piega di sfida: in gioco c’era la fedeltà, l’onestà e la bellezza delle proprie mogli rimaste a Roma. Nel gruppo di soldati c’era anche Sesto Tarquinio, figlio ed erede dell’ultimo re di Roma Tarquinio il Superbo. Gli uomini decisero, così, di tornare a Roma e cogliere le proprie mogli di sorpresa nelle loro case per scoprire chi fosse la migliore.
Tutte furono sorprese a far festa tranne una, ovvero Lucrezia, che era impegnata con le faccende domestiche ed è così che vinse la gara delle mogli. Sesto Tarquinio ne fu subito affascinato, si invaghì di lei, tanto che decise di tornare a trovarla da solo. La visita non fu, però, di innocente cortesia: durante la notte minacciò, infatti, di ucciderla e di metterle il cadavere di un servo nudo nel letto (il grado più basso di adulterio), se non avesse acconsentito ad avere rapporti sessuali con lui. Lucrezia per non permettere a Sesto di dare questo disonore al marito, ovvero dell’adulterio, si concesse all’uomo per lo stupro. Successivamente, dopo che Sesto fu ripartito, convocò il marito Collatino e il padre e denunciò il fatto. Decise, poi, di uccidersi, lasciando loro la severa punizione del colpevole.
La virtù della pudicitia
“Quid enim salvi est mulieri amissa pudicitia?” (“Che cosa c’è di integro in una donna una volta persa la pudicizia?) sono le celebri parole di Lucrezia, in quanto nell’antica Roma era fondamentale che una donna preservasse la sua purezza e avesse rapporti solamente con il marito. Lucrezia rappresenta infatti la donna modello poiché simbolo di castità e di preservazione. Lo stuprum indica un rapporto sessuale non lecito, adultero ma in ogni caso viene sottolineato per vim, quindi con la forza.
Per gli uomini era ovviamente diverso, essi avevano a disposizione concubine che potevano addirittura abitare con essi e con la moglie, mentre per le donne era assolutamente vietato avere rapporti extraconiugali. La mulier poteva incorrere anche in un’uccisione per delitto d’onore poiché macchiava la reputazione del marito.
In questo passo rimaniamo sorpresi proprio perché è Lucrezia che si pone quasi in una prospettiva maschile. Decide di uccidersi con la spada (gesto tipicamente eroico) poiché è lei che non riesce a sopportare la macchia sulla sua persona, non su quella di Collatino, suo sposo.
La pudicitia è qui il concetto chiave, era un valore tipicamente femminile, contrapposto al pudor maschile. L’uomo poteva guadagnarsi la fama in molti modi: ad esempio la carriera forense o militare. La donna, invece, poteva guadagnarsi la propria solamente tramite la pudicitia. Ricollegandoci più precisamente al discorso iniziale, le metafore militari sono molto comuni in questo contesto, soprattutto se legate allo stupro. Come se l’onore della donna sia una cittadella fortificata dalle mura inviolabili e chi attenta al suo onore viene visto come un assediante di una città.
Conclusione
Quando si parla di rape culture è dunque importante capire che le origini sono ben più remote e radicate di quello che si può pensare e di episodi di questo genere, nel mito, nella storia e purtroppo nella realtà, ne siamo pieni. La donna è stata sempre paragonata ad un oggetto di proprietà, a una città da proteggere o da conquistare e benché siano passati millenni e secoli da questi episodi, possiamo vedere come ancora questi casi possano considerarsi attuali.
Fonti: Closer.colantiaste.it, Tito Livio Ab Urbe Condita, appunti professor M. Lentano