Anni ’60. Jerome e Silvie sono due giovani parigini alla soglia dei trent’anni. La loro aspirazione nella vita? Diventare ricchi. Avere stabilità. La loro condizione è però ben diversa: studenti e poi psicosociologi senza vocazione, vivono in 35 mq mentre sognano un grande appartamento con giardino. Il minuscolo bilocale, in effetti, corrisponde alla loro situazione economica e posizione sociale, ma contrasta costantemente con le loro aspirazioni. Per potersi permettere le cose (un lussuoso appartamento, divani Chesterfield, la moquette) essi non sono tuttavia disposti a rinunciare alla libertà, come hanno fatto tanti loro conoscenti. Vivono quindi di impieghi saltuari sperando in “miracoli”: vincite alla lotteria, eredità, il caso. Schiacciati da questa condizione, decidono di partire per la Tunisia, per tentare la Fortuna. E tuttavia anche a Sfax, dopo circa un anno, la loro vita diventa “come una troppo lunga abitudine, come una noia quasi serena: una vita senza niente”. I due rifaranno nuovamente i bagagli per tornare in Francia. Tenteranno invano di tornare alla vita di prima. Sognando ancora la ricchezza, decideranno infine di “finire come gli altri”: accetteranno un posto fisso in provincia.
Le cose. Una storia degli anni Sessanta
Le cose, Una storia degli anni Sessanta (1965) è il romanzo d’esordio di Georges Perec. Un libro, fin dal titolo, pieno di cose: stanze sovrabbondanti di oggetti, dettagliate descrizioni delle case abitate e di quelle desiderate dai protagonisti, vestiti, negozi in cui comprare i vestiti, mobili, cibo. Jerome e Silvie, da studenti squattrinati senza una vera passione, inseguendo il “viver meglio”, abbandonano gli studi e iniziano a lavorare nelle ricerche di mercato. La disponibilità di denaro li trasforma e suscita in loro bisogni nuovi: “si era trasformata la visione che avevano del proprio corpo, e di conseguenza di tutto quanto li concerneva, […] di tutto quanto stava diventando il loro mondo.” Questa mutazione è evidente nel modo di vestire: da “anonimi” studenti scoprono infatti cachemire, camicie di seta, cravatte, il jersey, la gerarchia delle scarpe. Cambiare vestito è come cambiare pelle, e in definitiva, cambiare se stessi: sensibilità, gusti, necessità. Riuscire a possedere determinati tipi di oggetti significa diventare “una persona come si deve”, avere un determinato status.
Cose connotate
Si comprende come gli oggetti nel romanzo abbiano un senso ben più profondo. Perec stesso afferma in alcuni articoli di essere affascinato dalle cose, perché esse traboccano di significati, sono connotate, cioè rivelano la coscienza umana che vi sta dietro. Per esempio, una moquette spessa e profonda è il segno di una vita agiata. La personalità stessa dei protagonisti è collegata alle cose: privi di legami familiari e amicizie profonde, Jerome e Silvie affidano alle cose le loro identità ideali, la loro dignità sociale, il fine della loro vita.
Volevano godere la vita ma, ovunque intorno ad essi, il godimento si confondeva con la proprietà.
Le cose vanno possedute subito. La società dei consumi è dominata dall’idea di diventare ricchi senza lo sforzo della fatica e del lavoro: è questo il magico miracolo che perseguono i protagonisti e ciò che, al contempo, determina la superficialità delle cose della modernità. Gli oggetti che Perec descrive non raccontano infatti una storia, il passato di chi li ha creati e posseduti, ma anzi si cerca di nascondere le tracce del lavoro che li ha prodotti. I protagonisti stessi sognano di partire per un viaggio e al ritorno di trovare l’appartamento pulito, imbiancato e nuovamente ammobiliato.
Le non cose, Come abbiamo smesso di vivere il reale
Perec racconta il boom economico e il nuovo uomo che ne scaturisce attraverso i suoi oggetti: il divano, la moquette, le camicie di seta, le case di proprietà. Secondo l’autore “il mezzo (il desiderio degli oggetti) fa parte della verità (la felicità nella società dei consumi), come il risultato (l’aumento dei consumi)]”. Nel suo ultimo saggio, Le non cose, Come abbiamo smesso di vivere il reale (2021), il filosofo Byung-Chul Han sembra prendere esempio dallo scrittore per raccontare la realtà odierna: smartphone, IA, sharing economy, selfie. Ma, al contrario che ne Le cose, secondo il filosofo il problema della società dei nostri giorni è la mancanza degli oggetti. Siamo passati dalle cose alle non-cose, cioè le informazioni, le quali danno forma al mondo in cui viviamo.
Non abitiamo più la terra e il cielo, bensì Google Earth e il Cloud.
Le cose, che davano stabilità alla vita umana e in questo modo consentivano agli uomini la possibilità di ritrovare in esse sé stessi, la loro identità, stanno lasciando il posto a un’infomania. Il dominio delle informazioni è la causa della mancanza di legami dell’uomo con cose e persone. Non siamo più dominati dalla volontà di possedere, ma da quella di esperire. Una casa di proprietà, un’auto, dei legami duraturi, secondo Byung-Chul, non ci interessano più perché limitano la possibilità di fare esperienza.
La mancanza dell’Altro
Il filosofo arriva così a demonizzare anche varie forme della sharing economy, come il car sharing e l’home sharing, a suo avviso la prova della progressiva rinuncia alla proprietà privata.
Da qui la mancanza di stabilità dell’uomo moderno, che, privo di legami duraturi, è passato dalla comunità fisica alla community, forma merceologica di comunità.
Frammentazione sociale, crisi dei tradizionali modelli famigliari, invecchiamento della popolazione, declino delle comunità locali, sembrano confermare la prospettiva pessimistica di Byung-Chul. Una società sempre più chiusa verso l’altro e un individualismo diffuso. Tuttavia, vari studi stanno mettendo in rilievo gli aspetti positivi di queste nuove forme abitative e commerciali, che possono diventare la via per creare nuove configurazioni di vita comunitaria.
La società della proprietà tanto vagheggiata dal filosofo era in ultima analisi, il mondo di Jerome e Silvie, persone che vedevano le cose e i legami con esse come centro della loro vita, rimanendo di fatto anch’essi privi di relazioni familiari, amici.
Evitando di pensare i legami come vincoli e le nostre identità legate al possesso di determinati oggetti, infine dovremmo forse porci la domanda fondamentale di Fromm, essere o avere?