Le realtà dei numeri: il “pericolo” di essere studenti
Immaginate di avere sette anni, tra un compito in classe e la ricreazione, la vostra scuola vi obbliga a partecipare a un corso: come sopravvivere a una possibile sparatoria sul campus. Ora di anni ne avete dodici e quegli insegnamenti vi tornano utili nel momento in cui nel corridoio riecheggia uno sparo e sentite gli altri studenti urlare.
Lo scenario appena descritto ha un che di cinematografico, eppure rappresenta la realtà per più di 300.000 studenti statunitensi che, come afferma il Washington Post, hanno affrontato una situazione di gun violence nel corso della propria carriera scolastica. Negli ultimi anni la testata giornalistica si è concentrata nel creare un database per tracciare una cronologia delle sparatorie scolastiche avvenute dal massacro della Columbine High School del 1999, uno dei più terrificanti e mortali atti di violenza su suolo scolastico, ad oggi. Eppure, i numeri non sono speranzosi: sono più di 200 le sparatorie scolastiche avvenute in diciotto anni. In questi primi cinque mesi del 2022 se ne contano già 27.
L’ultima di cui abbiamo conoscenza, avvenuta il 24 maggio in una scuola elementare di Uvalda in Texas, è stata descritta dal New York Times come la seconda sparatoria per mortalità degli ultimi anni. Secondo le statistiche l’età media dei responsabili è collocabile tra i 16 e i 18 anni. Questo rende evidente come procurarsi un’arma da fuoco negli USA sia di una facilità disarmante. I figli dell’America fin dalle elementari convivono con la consapevolezza che nulla può realmente fermare un loro coetaneo dal compiere una strage.
L’ecosistema liceale negli USA: tossicità o stereotipo?
Incasellati in una gerarchia liceale rigida e un sistema scolastico ai limiti dell’abusante, l’ecosistema educativo pubblico americano crea situazioni di forte tensione tra coetanei. Le stesse direzioni scolastiche incentivano comportamenti classisti, tendenze omofobe e nonnismo. Ne sono esempi la campagna “non dire gay” che in Florida ha portato a vietare discussioni sull’orientamento sessuale a scuola. Oppure la cultura del dress coding ai danni di molti adolescenti. Il clima scolastico è spesso limitante e tossico, non favorevole alla costruzione di un ambiente sereno e pronto a sviluppare tendenze empatiche tra studenti. Il tutto contornato da una povera legislazione della proprietà delle armi da fuoco.
Gli USA sono lo stato che preferisce la cura alla prevenzione nel caso della regolamentazione delle armi da fuoco. L’enorme mole delle case di produzione non rallenta nemmeno davanti ai corpi delle vittime delle sparatorie. Vengono offerti percorsi di terapie per le famiglie, gli studenti e il corpo insegnanti. Si installano metal detector e si parla di zaini trasparenti. Le scuole convocano assemblee, si organizzano corsi di sopravvivenza, gli stessi studenti brevettano sistemi di sicurezza da installare alle porte nello specifico caso di una sparatoria. Si convive con l’enorme “elefante” della stanza che sputa proiettili, dondolandosi al ritmo del motto “le armi sono la nostra protezione”.
Elephant, Bowling a Columbine, The Fallout: esempi cinematografici
Dell’elefante nella stanza ne ben riesce a parlare Gus Van Sant nell’omonimo film del 2003, liberamente ispirato al massacro della Columbine High School, per la cui regia ha vinto una Palma d’oro al 56° Festival di Cannes. Il film, narrato da un occhio interno alla scuola, mostra quasi con semplicità quanto il male sia quotidiano. Due adolescenti, membri non reietti ma emarginati ai limiti del contesto sociale, organizzano un massacro, senza porsi nessun altra domanda, senza paura. Questa è la realtà, non un cliché cinematografico. La maggior parte di questi atti omicidi nascono da conflitti, frustrazioni, anni di bullismo che trovano uno sfogo nel pensiero, pensiero che degenera in violenza.
Dello stesso caso di cronaca se ne occupa Michael Moore nel suo documentario Bowling a Columbine. Moore compie un ulteriore passo avanti e, nel raccontare la storia statunitense sotto forma di cartone, riesce perfettamente a inquadrare la paura costante degli USA. Questa paranoia sempiterna, che arriva a condizionare la cinematografia, mostra il paese come ricettacolo di attentati, invasioni, terrestri e non. Paura e paranoia che trovano rifugio nelle armi, perché l’uomo americano ha bisogno della sua fidata pistola sotto al cuscino. E non è dunque strano per qualcuno negli USA crescere sapendo che ci sia una pistola nell’abitazione. Si è stimato che l’85% dei responsabili abbia avuto l’accesso all’arma del massacro in casa o tramite amici e conoscenti.
Proprio per dare una voce ai sopravvissuti è uscito a gennaio The Fallout, lungometraggio di Megan Park mandato in onda da HBO. Il film, pur volendo aprire una parentesi più ampia sull’adolescenza, riesce a fornire un crudo spaccato di realtà. I protagonisti si trovano improvvisamente a convivere in un clima di violenza e paura che sfocia in disturbi da stress post traumatico, abuso di sostanze, senso di colpa e dissociazione della realtà. Vada, sopravvissuta a una sparatoria nascondendosi in bagno, ci mostra la difficoltà di superare un evento traumatico di quella portata. La Park non ci risparmia, mostrandoci come, nonostante i progressi personali, non ci si libera mai davvero da questo terrore.
Quanto ancora..
La domanda che viene dunque da porsi è: quanto ancora prima che il possedere un’arma da fuoco negli Usa raggiunga una regolamentazione davvero efficace? Quanto ancora prima che si determino reali restrizioni? Forse sarebbe consigliabile che il Texas permettesse la circolazione più di sex toys che di pistole (sezione 43.23 del codice penale texano: è contro la legge possedere più di sei “osceni” giocattoli destinati alla stimolazione sessuale) Ma questa è un’altra storia.